Cerca
Logo
Cerca
+

La cura non funziona, mandiamo via il professor Monti

default_image

di Maurizio Belpietro

Giulio Bucchi
  • a
  • a
  • a

Ops, i conti non tornano! Sono passati poco più di quattro mesi dall'insediamento di Mario Monti e dei suoi ministri. Per l'esattezza 137 giorni. E qualcosa nel piano che dovrebbe salvare l'Italia dal tracollo comincia a non funzionare. Non solo si è conclusa la luna di miele che aveva garantito al neo presidente del Consiglio di godere di buona stampa, in Italia e all'estero. Ma sono soprattutto gli indici a dare i numeri. In particolare il cosiddetto spread. Il premier ne aveva fatto una bandiera, anzi il simbolo delle sue teorie economiche. Appena arrivato a Palazzo Chigi aveva lasciato capire che sarebbe bastato il suo nome a spegnere i bollenti spiriti del  differenziale fra le quotazioni dei nostri titoli di Stato e i bund tedeschi. In effetti, dopo qualche settimana l'indicatore è cominciato a scendere, più per la liquidità pompata dalla Banca centrale europea di Mario Draghi che per la rassicurante presenza di Mario Monti, ma ciò nonostante il capo del governo se ne è accaparrato i meriti. «Lo spread non tornerà a salire», garantiva alla fine di febbraio. E pochi giorni dopo dava segni di tranquillità, dichiarando che l'unico spread a rischio di allargarsi era quello tra i partiti. Colpito a tradimento da un'improvvisa fiammata del super-indice, il bocconiano non ha saputo far di meglio che dare la colpa agli altri. La Spagna innanzi tutto, ma anche Emma Marcegaglia e perfino i giornali stranieri che non capiscono. Poi, resosi conto di aver usato le stesse frasi che prima di lui erano state pronunciate da Berlusconi, il presidente del consiglio si è rimangiato le parole, facendo sostenere al proprio ufficio stampa di non averle mai dette. Smentite o no, la sostanza rimane invariata: se lo spread  si abbassa è merito di Monti, se sale è colpa degli altri. Ma indipendentemente dalle curiose teorie dell'inquilino di Palazzo Chigi, ciò che conta è che la cura non funziona. Ieri il governo è stato costretto a piazzare le nuove emissioni di titoli di Stato ad un prezzo quasi doppio del precedente, ma soprattutto ciò che preoccupa è la tenuta dei conti pubblici. Più di un osservatore infatti si sta rendendo conto che se il Paese non si riprende, sarà difficile centrare gli obiettivi. Del resto si fa alla svelta a verificarlo: nonostante la valanga di tasse che il premier ha scaricato sulle spalle dei contribuenti, se il Pil non risale tutti i calcoli rischiano di andare a pallino, perché agli introiti derivanti dalle nuove imposte corrisponderà un calo del gettito dovuto alla mancata crescita. Qualche settimana fa, su nostra sollecitazione, la Cgia di Mestre ha provato a fare qualche conto. Risultato, se si prendono le stime del Fondo monetario internazionale che ipotizzano per l'Italia un calo del prodotto interno lordo del 2,2 per cento, la riduzione delle entrate potrebbe essere di 53 miliardi di euro, più cioè di quanto il Fisco ricaverà dalle tasse decise con il decreto fiscale dello scorso dicembre. La somma – in negativo – varia un poco se si prendono le previsioni fatte da Moody's di una diminuzione del Pil dell'uno per cento.  In tal caso la variazione di gettito rispetto a quanto stimato dal governo è di poco superiore ai 40 miliardi di euro. Si potrebbe continuare con quel che ha preventivato un altro istituto di ricerca, Prometeia, ma  il risultato non cambia. Se il Pil non cresce, se cioè le aziende non producono e vendono di più, e la gente non consuma e non fa salire il fatturato dei negozi, c'è pericolo che il bilancio dello stato peggiori nonostante le tasse. Anzi: proprio per le tasse. Lo spettro di una nuova manovra, cioè di un'altra correzione a colpi di gabelle che andrebbero a sommarsi a quelle già introdotte, si fa sempre più incombente. E, nonostante le smentite di Mario Monti, si capisce che negli ambienti abituati a far di conto c'è preoccupazione.  I primi segnali sono arrivati dal Financial Times e dal Wall Street Journal, i quotidiani di riferimento della comunità finanziaria. Ma ora a lanciare segnali d'allarme sono gli stessi colleghi di Monti. Sul Corriere della Sera, ieri Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, entrambi bocconiani, spiegavano che per far ripartire l'Italia non servono nuove imposte, e dunque non gli aumenti dell'Iva annunciati dal governo per i primi di ottobre. Semmai c'è bisogno di mettere mani alle forbici per recuperare fondi da destinare allo sviluppo. In poche parole quanto sosteniamo noi fin dal giorno in cui il professore si è insediato: si deve tagliare la spesa, non i risparmi delle famiglie. Non sappiamo se Mario Monti ascolterà i colleghi. A naso prevediamo che tirerà diritto, ignorandoli così come ha fatto quando alcuni prof. si sono permessi di spiegare che la sua riforma del lavoro era più dannosa che utile. In tal caso, se le forze politiche che gli italiani hanno eletto in Parlamento servono ancora a qualcosa, non resta che una soluzione: mandarlo a casa. di Maurizio Belpietro  

Dai blog