Matteo si è piegatoE noi pagheremo caro
Renzi si è dovuto inchinare al Colle e ai partiti. E con all'Economia un fan della patrimoniale è inutile sperare in novità utili al Paese
Il governo che ieri Matteo Renzi ha presentato al Quirinale e che la settimana prossima chiederà la fiducia al Parlamento nasce male. Non solo perché i ministri che ne fanno parte sono frutto di un mercanteggiamento fra partiti e Quirinale che ricorda molto il manuale Cencelli in uso nella prima Repubblica. Ma perché, scorrendo i loro nomi, si capisce che del grande cambiamento di cui il sindaco di Firenze si è fatto paladino non c'è neppure l'ombra. Guardando gli uomini chiamati a guidare i principali dicasteri è difficile infatti non avere la sensazione che il nuovo esecutivo somigli alla fotocopia del governo Letta. Certo non si può spacciare per il rinnovamento il fatto che Angelino Alfano rinunci all'incarico di vicepremier in cambio della conferma a ministro dell'Interno. Né si può pensare che ci sia una svolta in seguito all'uscita di scena del ministro della cultura Massimo Bray o della responsabile dell'Istruzione Annamaria Carrozza. Nel nuovo governo ci sono molte donne, più che in quelli precedenti, e se dal punto di vista estetico si può apprezzare il miglioramento sostenere che ai vertici della politica sia cambiato qualcosa perché oggi c'è Maria Elena Boschi al posto di Gaetano Quagliariello non solo fa ridere, ma fa anche pena. Certo, allo Sviluppo economico è arrivata una donna-manager come Federica Guidi, già presidente dei giovani di Confindustria, ma solo dopo che Renzi ha sfogliato una margherita di no, collezionando i rifiuti di Guerra (Luxottica), Moretti (Fs), Montezemolo (Italo) e Bernabé (ex Telecom). La Guidi è brava e rispetto al predecessore almeno ha il pregio di conoscere la materia di cui è chiamata ad occuparsi. Tuttavia su quella poltrona hanno fallito in tanti, primo fra tutti un manager come Corrado Passera, perché non sapevano nulla di come funziona la macchina dello Stato. Non conta infatti conoscere che cosa sia necessario fare, pesa molto di più avere i soldi per poter fare e quelli non li aveva l'ex amministratore delegato di Banca Intesa né li avrà la donna che fino a ieri si occupava di Ducati energia. E qui viene il nodo che rischia di strozzare nella culla il governo Renzi, ovvero chi va ad occupare la casella di ministro dell'Economia. Il posto di Saccomanni sarà ricoperto dal capo economista dell'Ocse Pier Carlo Padoan, fino a ieri presidente in pectore dell'Istat. Poco noto alle cronache se non per alcune apparizioni in tv durante la trasmissione di Rai3 di Giovanni Floris, Padoan fa parte di quei tecnici devoti all'ideologia dell'austerità. Per conoscere chi è basta digitare il suo nome su Google e tra le prime corrispondenze che compaiono c'è la parola patrimoniale. Già, perché il nuovo ministro è un teorico dell'imposta sugli immobili. Tempo fa dichiarò che le tasse che danneggiano di meno la crescita sono quelle sulla proprietà. Per lui certe gabelle tipo Imu sono quasi una benedizione, «perché a parità di gettito possono dare un impulso positivo all'economia e all'occupazione». A causa delle sue sballate previsioni (nel marzo del 2012 in un'intervista annunciò che nel 2013 l'Italia sarebbe stata fuori dalla crisi) per cui recentemente ha fatto autocritica, il premio Nobel dell'Economia Paul Krugman lo ha definito una cheerleader dell'austerity, una «ragazza pon pon» del disastro europeo. Con queste premesse, oltre che con un passato di consigliere economico di D'Alema e Prodi, Padoan raccoglie l'eredità di Saccomanni, deciso a proseguire l'attività di ministro dell'Economia nel solco tracciato dagli euro burocrati e dai banchieri centrali. Altro che sforare il tetto imposto da Bruxelles per trovare le risorse necessarie a rilanciare la crescita della nostra economia. Altro che dare una speranza ai giovani, ai lavoratori e alle imprese. In un'intervista al Wall Street Journal Padoan spiegò che il dolore stava dando risultati e che dunque bisognava proseguire nella politica dei sacrifici: gli italiani sono avvisati. Non promette bene anche la nomina di Giuliano Poletti alla guida del ministero del Lavoro e non per la qualità della persona, che ha l'aria paciosa di un buon funzionario delle Coop emiliane. Ma perché quella casella avrebbe dovuto essere occupata da Pietro Ichino, ossia dall'uomo che a fianco di Matteo Renzi aveva suggerito il superamento dell'articolo 18 e di tutte le rigidità del mercato del lavoro. Via il giuslavorista eretico del Pd, è evidente che non ci sarà nessun cambio di verso nei confronti della Cgil e della sinistra: il tabù dei contratti non si toccherà e i nuovi posti i disoccupati se li scorderanno. Commentando la nascita del governo, Giorgio Napolitano ha tenuto a precisare che nessuno gli ha forzato la mano. È vero: sono lui e i partiti ad averla forzata a Renzi, il quale ieri, davanti alle telecamere, sia nella mimica facciale che nella voce stentorea non aveva l'aria del vincente ma del perdente. Insomma, il governo non brilla. Anzi: nasce sotto una cattiva stella. di Maurizio Belpietro