Ci siamo giocati pure la Fiat
Mentre infuria la vicenda Electrolux, il Lingotto sposta la sede (anche fiscale) all'estero. È l'ovvia conseguenza di un sistema che tra tasse, bollette e burocrazia ha dichiarato guerra alle imprese
Al lettore Alessandro Comuzzi non è piaciuto il commento sulla vicenda Electrolux: da quanto capisco è un dipendente del gruppo svedese e l'idea che Libero non abbia attaccato la proposta dell'azienda di ridurre gli stipendi lo ha contrariato. Una reazione più che comprensibile: a nessuno fa piacere vedersi dimezzata la busta paga e passare da una condizione economica tranquilla a una che rasenta la povertà. Il problema però è che se non si capisce come si arriva a tutto ciò, cioè a un taglio del 30-40 per cento dei salari, e ci si limita a protestare non si va molto lontano. Che senso ha scioperare o minacciare rappresaglie come il fermo degli stabilimenti? La società sta dicendo che i suoi prodotti a causa dei costi alti rischiano di finire fuori mercato e il sindacato per tutta risposta invece di ragionare insieme con i vertici aziendali per trovare una via d'uscita, ferma gli impianti? È una soluzione? Non mi pare. Anche perché non aiuta a comprendere come si arriva alla proposta choc. Sono almeno trent'anni che il settore del bianco è in crisi e, come abbiamo già scritto, nel corso dei decenni molte aziende hanno gettato la spugna, mentre di altre sono rimasti solo i marchi. Ignis, Indesit, Rex, Zanussi, Philco, Zerowatt. L'elenco potrebbe continuare. Perché delle imprese di successo sono scomparse o sono state comprate e risucchiate nel gorgo delle fusioni aziendali? Perché nel campo degli elettrodomestici da cucina e bagno soffrivano la concorrenza dei paesi stranieri, in particolare di quelli emergenti. Lì produrre costa meno, vuoi perché i salari sono un quarto se non di meno dei nostri, vuoi perché si pagano meno tasse, i servizi sono meno costosi, la bolletta pesa meno. Tutto è meno rispetto a noi. Qualcuno obietterà che anche la qualità è minore, ma non sempre è così e alla fine nelle corsie dei supermercati i prodotti esteri hanno un prezzo inferiore ai nostri. Risultato: molte aziende hanno scelto di trasferirsi altrove per cercare di reggere la concorrenza. È colpa degli operai tutto ciò? No. La loro unica colpa – se così la si può chiamare – è di essere dipendenti di una società che opera in un settore maturo dove la concorrenza è agguerrita. E allora si chiederà Comuzzi, perché devo pagare io, con il mio stipendio e la mia famiglia? Perché devo andare in malora io che ho fatto solo il mio dovere di lavoratore? Domanda giusta. Alla quale non si può che rispondere che lui non deve pagare. Ma l'alternativa qual è? Se un'azienda per non farsi sopraffare dalle imprese concorrenti deve ridurre i costi, da che parte comincia? Dalle tasse? No, perché quelle non dipendono da lei, ma dallo stato, dalla regione e i comuni e ad oggi sono in continua crescita. Può autoridursi la bolletta energetica? No, perché le tariffe le decidono le industrie produttrici e l'Authority. Forse può limare i costi dei servizi, includendo tra questi anche quelli dei trasporti e degli adempimenti burocratici? Anche in questo caso la risposta è negativa, in quanto sui trasporti incide il prezzo del gasolio e le tasse dello stato e su quello della burocrazia pesa una legislazione che impone timbri, verifiche, tenute contabili e non lascia spazio a nessuna semplificazione. Insomma, non voglio farla tanto lunga, ma la voce più semplice da toccare è il costo del lavoro ed è quello che minaccia di fare l'Electrolux, proponendo a operai e impiegati paghe polacche. Ora, io ho la sensazione che il gruppo svedese abbia voluto fare una proposta provocatoria per costringere sindacati e governo e sedersi intorno a un tavolo e discutere. Però il colpo a effetto non può non portare a riflessioni più generali sul nostro sistema produttivo. Se a un'azienda si chiede di restare sul mercato e di affrontare la concorrenza, non si può però caricarle sulle spalle le inefficienze del paese pensando che possa andare lontano. Se non si tagliano le tasse, la burocrazia, la bolletta energetica, le industrie schiattano e quelle che non vogliono schiattare traslocano. È questo ciò che si vuole? Indignarsi perché un'industria propone il taglio degli stipendi (ma in Germania quando è stato necessario lo hanno fatto, magari non del 30-40 per cento, ma del 10-20) senza vedere i problemi che sono alla base della provocazione non serve. Perché non ci si indigna quando nei supermercati italiani arrivano in offerta super scontata le lavatrici e i frigoriferi prodotti in Polonia? E allora come la mettiamo? Siamo per il mercato aperto che ci consente di risparmiare quando facciamo acquisti o per il mercato chiuso quando ritiriamo la busta paga? La verità è che ormai esiste un solo mercato e con quello bisogna fare i conti, anche perché l'Europa impedisce di aggiustarli con sussidi pubblici alle industrie private. Si vuole capire tutto ciò? Oppure vogliamo aspettare che, come la Fiat, le imprese prendano il volo? L'azienda automobilistica per stare in piedi si è fusa con la Chrysler e adesso ha spostato la sede della holding tra Paesi Bassi e Gran Bretagna, dove si pagano meno tasse. Per ora a risparmiare sulle imposte saranno gli azionisti, ma se domani il gruppo spostasse anche qualche fabbrica? In fondo di auto in Italia se ne vendono sempre meno, perché c'è la crisi e il governo non si decide ad abbassare la pressione fiscale per rilanciare i consumi, e allora tanto vale produrre meno vetture qui e farne di più altrove. Purtroppo non solo i capitali sono mobili, ma anche le società e una società va là dove trova condizioni più favorevoli, sia per il mercato che per le imposte. Impedire a qualcuno di andarsene, studiare ritorsioni o sanzioni, oltre che antistorico e probabilmente impossibile da realizzare, è inutile. Forse, prima che Fiat, Electrolux e tante altre se ne vadano è giunta l'ora di rimuovere gli ostacoli che impediscono alle aziende di restare. O la crescita pensiamo di rilanciarla a prescindere dalle aziende? di Maurizio Belpietro