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Buoni e Tfr per aumentare la busta paga

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Letta promette più soldi in busta, ma non sa come abbattere il cuneo fiscale. Consiglio: aumenti gli sgravi sui ticket di ogni tipo e "liberi" le liquidazioni, i consumi ripartiranno

Giulio Bucchi
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maurizio belpietro Nonostante abbia assicurato che l'anno prossimo il suo governo metterà più soldi nella busta paga dei lavoratori, il presidente del Consiglio mercoledì in Parlamento non ha spiegato come intende realizzare il proposito e, soprattutto, dove troverà i fondi necessari. Come si è visto quando è stata discussa la legge di stabilità, per mettere poche decine di euro nelle tasche di chi lavora ci vuole una montagna di soldi. A causa del carico fiscale e di quello contributivo, ogni cento euro dati a un dipendente corrispondono infatti a quasi trecento per le aziende.  E anche l'introduzione di sgravi fiscali in sostituzione del semplice aumento di stipendio non sarebbe gratis, perché allo Stato verrebbe a mancare un bel po' di gettito Irpef.   Insomma: bella l'idea di far ripartire i consumi alzando gli stipendi degli italiani, in modo che le famiglie possano spendere di più, ma il piano cozza con la cronica carenza di quattrini nelle casse delle aziende e in quelle dello Stato. Non c'è un euro e anche se ci fosse non basterebbe, perché, pur concedendo briciole di aumento, a causa  della quantità di aventi diritto se ne ricaverebbe una cifra monstre e il primo a rendersi conto dell'impossibilità di abbassare il carico fiscale fu il viceministro dell'Economia ai tempi del governo Prodi, ovvero il mai rimpianto Vincenzo Visco. All'epoca, il numero uno delle Finanze (a lui competeva infatti la delega su  tasse e sgravi) studiò come tagliare le imposte sul reddito  dei lavoratori, ma alla fine fu costretto a gettare la spugna con cui si preparava a ridurre il peso del fisco sulla busta paga. Dunque si torna al punto di partenza: Letta dove prenderà i dieci-quindici miliardi che servono per dare soldi a chi non li ha? Finora il denaro per concedere qualche agevolazione sui redditi più bassi lo si è trovato  introducendo nuove tasse o inventando strani marchingegni come gli anticipi dei pagamenti. Un gioco delle tre carte in cui a perdere è sempre il contribuente, il quale alla fine è costretto a pagare il conto delle accise o della tassa sui rifiuti applicata a negozi e aziende. Inoltre il gioco non lo si può fare in eterno, perché, dopo essere stato gabbato parecchie volte, anche il più ingenuo capisce che quella del governo è solo una partita di giro: con una mano finge di tagliare le gabelle, con l'altra le incassa. Proprio perché, al pari dei quattrini, le idee scarseggiano, ci permettiamo a questo proposito di segnalarne un paio che potrebbero venire incontro alle intenzioni del presidente del Consiglio. La prima l'abbiamo presa a prestito da Alberto Brambilla, ex presidente della Commissione di vigilanza sulla spesa previdenziale, il quale, per venire a capo del problema di aumentare i salari senza gravare sulle casse dello Stato, ha suggerito una specie di welfare aziendale. In pratica si tratterebbe di incentivare l'importo deducibile di tutti quei buoni che possono essere spesi dai lavoratori. Da quello per il pasto a quello per la benzina, per i libri o per altri servizi, ticket che già molte aziende utilizzano, ma limitatamente perché altrimenti si rischia che siano assoggettati come fossero normale reddito. Per il dipendente i buoni equivarrebbero a moneta sonante, da spendere al bar o al supermercato, dal benzinaio o in libreria per comprare i volumi di testo dei figli. Per l'azienda il vantaggio è evidente: sui buoni non graverebbe il carico fiscale che schiaccia le buste paga. Semplice, no? Quasi come l'uovo di Colombo. Per aumentare le buste paga e spingere i consumi c'è però anche un'altra strada e pure quella non a carico della fiscalità generale. Ricordate il Tfr, ovvero il trattamento di fine rapporto? Fino a qualche anno fa la liquidazione veniva lasciata alle aziende, le quali la accantonavano anno dopo anno in attesa del momento in cui il dipendente in uscita ne avesse fatto richiesta. Per l'impresa si trattava di un accantonamento che consentiva di disporre di una certa liquidità senza far ricorso alle banche. Tempo fa, con la scusa di promuovere i fondi pensione, il governo Prodi decise di togliere il Tfr alle aziende costringendole a depositare la liquidità nelle casse dell'Inps. Oggi  quei soldi - che sono di proprietà dei lavoratori - nonostante la stretta creditizia non vengono  usati per finanziare le imprese, ma per tappare i buchi dell'Inpdap, l'ente previdenziale dei dipendenti pubblici scaricato dal governo Monti sulle spalle dell'Inps. E però, ribadiamo, quei soldi sono dei lavoratori, non dell'Inpdap, dell'Inps  e tantomeno del governo. Dunque la liquidazione si potrebbe restituire ai lavoratori. Provate a immaginare che cosa accadrebbe in una busta paga di 1250 euro (si tratta del salario medio in Italia).  In pratica il dipendente riceverebbe 100 euro in più al mese che lo trasformerebbero non in un nuovo ricco, ma almeno in un operaio o impiegato che tira un po' meno la cinghia e può spendere qualche euro in più. Certo, l'idea avrebbe il grave difetto di togliere all'Inps i fondi con cui tappa i buchi dell'Inpdap. Ma siamo sicuri che sia un difetto e non un pregio? di Maurizio Belpietro        

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