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Il Pdl deve restare unito?Sì, ma per fare qualcosa

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Dividersi non conviene a nessuno, però la compattezza interna deve servire a modificare le decisioni del governo. Altrimenti, meglio andare ognuno per la propria strada

Matteo Legnani
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Dentro il Pdl ormai danno i numeri. In vista del consiglio nazionale del 16 novembre ogni fazione si attribuisce un certo numero di consensi. Gli «alfaniani» sostengono di avere almeno 315 degli 861 voti del «parlamentino», nel quale basta un terzo dei consensi per bloccare la trasformazione del Popolo della libertà in Forza Italia. Ma ai delegati sicuri se ne aggiungerebbe un'altra settantina in procinto di diventarlo. Secondo i «lealisti», i votanti favorevoli a tornare al vecchio partito azzurro con Berlusconi capo assoluto sarebbero invece 576 e un'altra settantina potrebbe aggiungersi a breve. Ovviamente i conti non tornano, perché ammesso e non concesso che gli incerti siano considerati da entrambi i fronti, resta il problema del risultato finale. Sommando alfaniani e lealisti, senza tener conto dei settanta che ancora non si sono schierati, si arriva a quota 891, trenta in più degli aventi diritto al voto. Forse qualche delegato fa il doppio gioco e viene conteggiato da entrambe le squadre? Sta di fatto che sia gli uni che gli altri assicurano di avere le firme dei delegati e non solo l'assenso verbale. Diciamo che non siamo ancora al fenomeno delle tessere truccate per le primarie del Pd, ma che anche dentro il Pdl ci sia più di un furbo è fuori discussione. Con la differenza che nessuno dei due schieramenti mette in discussione il leader.  Già, perché mentre nel Partito democratico la confusione è a livelli massimi e c'è la corsa della nomenklatura a baciare la pantofola di chi fino a ieri prometteva di rottamarla, nel Pdl nessuno ha il coraggio di discutere la supremazia del Cavaliere. Sia per Angelino Alfano che per Raffaele Fitto, il capo  del centrodestra rimane sempre lui e fino che ne avrà voglia deciderà linea e sorte del partito che ha fondato. Semmai la differenziazione fra le due correnti è sulla strategia da adottare, soprattutto nel momento in cui si verificherà la cacciata di Berlusconi dal Parlamento. Dimettersi dal governo e sperare che il capo dello Stato conceda le elezioni oppure no? Buttar giù l'esecutivo il giorno in cui i cosiddetti alleati del Pd e di Scelta civica voteranno per la decadenza del Cavaliere da senatore o anticipare il voto contrario appena arriveranno in aula le scarse e poco efficaci misure per rilanciare l'economia? Ecco, la divisione è tutta qua. C'è chi ritiene che non sia il caso di mandare a casa Letta perché chi verrà dopo sarà peggio di lui e chi pensa che, licenziato il nipote di Gianni, non possa esserci altra strada che il voto. C'è chi sostiene che ci si debba ribellare a viso aperto alla decadenza ingiusta di Berlusconi e chi invece punta sui temi economici ritenendo che una crisi di governo sulle tasse possa essere meglio compresa dagli elettori. Comunque la si veda e da qualsiasi parte si stia, è però assai difficile che il Popolo della Libertà (o si dovrà cominciare a chiamarlo Forza Italia?) si spacchi, come titolavano ieri alcuni giornali. La divisione in due tronconi, moderati e duri, non servirebbe a nessuno ma indebolirebbe tutti. E neppure avrebbe molto senso elettorale lo spacchettamento, cioè la nascita di due partiti, uno con il venti per cento e l'altro con una percentuale variabile fra i 3 e il 10, a seconda di chi lo rilevi. Come avviene nelle liti coniugali, finché si può - nonostante l'amore sia finito da un pezzo - si sta insieme per convenienza e allo stato attuale dei fatti sia ai lealisti che agli alfaniani conviene stare uniti, perché divisi perdono. Lo sa benissimo Berlusconi, il quale pur non avendo ancora ben chiaro quale sarà il suo prossimo destino, se cioè in caso di elezioni in primavera potrà candidarsi oppure no, è arciconvinto che per battere Matteo Renzi servirà lo sforzo di tutti, anche di chi il 2 ottobre lo ha sconfessato concedendo la fiducia al governo Letta. Se dovessimo puntare qualche soldo su ciò che accadrà, dunque lo punteremmo su una ricomposizione del centrodestra e non in una sua dissoluzione. Forse qualche alfaniano lascerà il partito, iscrivendosi al gruppo misto, ma il resto della pattuglia non strapperà, evitando di condannarsi a fare da stampella alla sinistra.  Tutto risolto dunque? Per niente. Nonostante la probabile riappacificazione (anche se tenendo sempre a portata di mano il coltello per regolare i conti con l'avversario), resta un tema di fondo e cioè a cosa serva la tregua. Fare pace può essere utile solo per agire insieme sul governo, obbligandolo a trasformare la manovra delle tasse in una manovra taglia sprechi. Rimanere insieme, evitare la dissoluzione del centrodestra e difendere Berlusconi dagli assalti di cui è oggetto deve avere come obiettivo non una battaglia di retroguardia, ma una per modificare la condotta di politica economica del governo. È in grado questo centrodestra di imporsi e di imporre la riduzione della spesa pubblica invece dell'ennesima stangata per il contribuente? Noi lo speriamo, altrimenti l'unità non servirebbe a niente. Meglio andare ognuno per la propria strada.

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