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Uno Stato sotto il ricatto delle toghe

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Di fronte al prestigio delle istituzioni e all'interesse nazionale, negli altri Paesi la politica ha un primato sulla magistratura. Da noi no, come dimostrano il caso che coinvolge il Quirinale e la nuova inchiesta che sta per iniziare contro Berlusconi

Giulio Bucchi
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Alla fine si torna sempre lì, alla giustizia. C'è la crisi, il Paese è costretto a fare sacrifici, il governo stanga i contribuenti, ma su tutti i guai dell'Italia incombe la decisione dei giudici. I quali, più che dar la caccia ai reati che allarmano l'opinione pubblica, danno la caccia ai fantasmi che appassionano Travaglio e i suoi compagni. Sono di ieri due notizie. La prima è che il presidente della Repubblica sarà obbligato a deporre nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Il capo dello Stato all'epoca delle stragi non era ministro e nemmeno aveva un ruolo di primo piano. Il presidente della Repubblica di quel periodo era Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi faceva il premier, mentre al ministero della Giustizia  stava Giovanni Conso e a quello dell'Interno Nicola Mancino. Che c'entra dunque Giorgio Napolitano?, si chiederanno i lettori. C'entra, c'entra. Perché quando i pm di Palermo capeggiati da Antonio Ingroia cominciarono a ipotizzare che per fermare le stragi lo Stato fosse sceso a patti con la mafia, Mancino, sentendosi messo nel mirino, se ne lamentò con il consigliere giuridico del Quirinale, l'ex magistrato Loris D'Ambrosio. Che disse Mancino a D'Ambrosio? Ma soprattutto, che riferì D'Ambrosio al presidente della Repubblica? E quest'ultimo, come commentò? Per saperlo i pm avrebbero voluto interrogare l'uomo del Colle, ma il poveretto prima si avvalse del silenzio, invocando presunte prerogative quirinalizie, e poco dopo morì. La Procura di Palermo a questo punto mise le mani sulle telefonate intercorse fra il capo dello Stato e i protagonisti della vicenda, intervento a gamba tesa contro la massima autorità del Paese che la Corte costituzionale ha stoppato, ordinando la distruzione dei supporti su cui sono state registrate le conversazioni. Fine della storia? Riaffermazione della supremazia della politica sui giudici? Niente affatto: i pm, anziché rassegnarsi, hanno trovato un'altra via per raggiungere lo scopo di conoscere che cosa sappia il capo dello Stato della trattativa Stato-mafia. Al processo che si sta svolgendo a Palermo in Corte d'Assise hanno chiesto la testimonianza del presidente della Repubblica, il quale sotto giuramento avrà l'obbligo di «dire la verità, tutta la verità».  Precisiamo: nel caso della trattativa Stato-mafia, ammesso che mai ci sia stata, i ministri sotto processo non sono accusati di aver intrattenuto rapporti con qualche capocosca: fosse successo si tratterebbe di una decisione politica, non censurabile perché presa per fermare le stragi della piovra. No, i ministri sono accusati di non rivelare ai pm quello che sanno, cioè di non dire ciò che a vent'anni dai fatti la Procura ha deciso sia la verità e cioè che le istituzioni allentarono il regime carcerario ai mafiosi a patto che i picciotti ponessero fine alla stagione delle bombe. In questa faccenda, come in altre cui abbiamo assistito in anni recenti (ad esempio il cosiddetto caso Abu Omar che coinvolse i capi del nostro servizio segreto militare), c'è tutto il nocciolo del problema riguardante i rapporti tra politica e giustizia. Ci sono questioni che attengono alla sicurezza dello Stato che debbono restare segrete oppure no? Ci sono cariche che vanno preservate dall'azione dei magistrati perché il loro operato è fatto nell'interesse del Paese oppure no?  In altre nazioni la giustizia fa un passo indietro se ci sono di mezzo le istituzioni, da noi se possibile ne fa uno avanti, non preoccupandosi né di mettere alla berlina le istituzioni stesse né dei danni che eventualmente può provocare al Paese e alla sua immagine.  E qui veniamo alla notizia numero due della giornata di ieri. La Procura di Milano ha aperto un fascicolo contro Silvio Berlusconi, ipotizzando a suo carico il reato di subornazione di testimoni. In pratica si tratta della prosecuzione del processo Ruby. Qualcuno ricorda? Mesi fa il Tribunale ha condannato in primo grado il Cavaliere per concussione e per favoreggiamento della prostituzione minorile. Sette anni perché secondo i giudici non poteva non conoscere l'età della ragazza, perché non può non esserci andato a letto e perché nonostante i presunti concussi neghino non può che averli concussi. Non fa nulla che decine di testimoni abbiamo smentito le tesi dell'accusa. Anzi fa qualcosa, dato che i giudici, oltre a condannare Berlusconi alla pena che si è detta, hanno deciso di sollecitare il processo anche nei confronti dei testimoni per falsa testimonianza. E se c'è qualcuno che ha mentito ci dev'essere per forza anche qualcun altro che li ha indotti a farlo. Risultato: oltre ai sette anni già comminati, il Cavaliere ne rischia altri per corruzione, subornazione di testimone o intralcio alla giustizia. In pratica: i giudici si preparano a mettergli le manette e a buttar via la chiave. Che poi sarebbe la conclusione di una caccia durata vent'anni e condotta senza tregua.  Viste le notizie, tocca agli italiani esprimersi. Se a loro sta bene così, modifichiamo non l'articolo 138 della Costituzione, ma solo il primo, scrivendo che la Repubblica non è fondata sul lavoro ma sui giudici. Se invece molti di loro nutrono dubbi, beh, allora si decidano e facciano sentire la loro voce. Non è tempo di maggioranze silenziose. di Maurizio Belpietro twitter @BelpietroTweet

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