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Salvato il soldato Enrico. Ora basta rinvii o perdono tutti

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Silvio ha fatto retromarcia quando ha capito che non aveva i numeri per sfiduciare il governo. È un passo indietro, ma così rimane in gioco

Andrea Tempestini
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I lettori meno attenti è probabile che non abbiano capito un accidente di quanto è accaduto ieri nell'aula del Senato. Perché, dopo aver  fatto annunciare da un veemente Sandro Bondi che il gruppo del Pdl avrebbe votato la sfiducia al governo Letta, Silvio Berlusconi ha cambiato idea all'improvviso, decidendo di far votare la fiducia al governo di cui appena cinque giorni prima aveva decretato la fine? Che cosa ha indotto il Cavaliere all'inattesa piroetta quando soltanto un'ora prima il suo gruppo aveva deciso all'unanimità di seguirlo anche nell'ultima battaglia? Domande legittime di chi ha altro da fare che inseguire i giochi che si fanno dentro il Palazzo. La risposta sta in una pagina: quella che ieri il ministro Gaetano Quagliariello ha mostrato con finta noncuranza all'obiettivo delle telecamere un'ora prima che a Palazzo Madama cominciassero le votazioni. In quel foglio si potevano scorgere i nomi dei dissidenti del Pdl: una lista di una ventina di senatori. Ventidue, forse ventitré, anzi venticinque:  comunque molti di più di quelli annunciati. Un numero sufficiente a salvare il governo Letta e a consentirgli  di non colare a picco come una bagnarola. Nella serata di martedì Denis Verdini, l'uomo che in questi anni ha garantito a Berlusconi i numeri per superare i momenti difficili, pare avesse assicurato che la fronda si sarebbe limitata a poca cosa, otto forse dieci senatori, una pattuglia comunque non in grado di far arrivare la maggioranza di governo a quota 161, il numero magico della fiducia. E invece prima che si votasse e dopo che tutti i tentativi di mediazione fra Berlusconi e Alfano erano falliti, ecco spuntare la paginetta di Quagliariello con le firme dei dissidenti.  Un colpo alla sicurezza ostentata fino a martedì notte dai falchi. Una minaccia alla tenuta stessa del Pdl, perché è vero che i 26 senatori non  erano i quaranta annunciati da Carlo Giovanardi, ma erano molti, moltissimi di più, di quelli immaginati.  Gianfranco Fini quando ci fu la rottura, al Cavaliere portò via solo nove senatori di un gruppo ben più numeroso di quello attuale. Insomma, dopo essersi illuso di poter contenere la frana e di mandare a casa il governo, costringendo il capo dello Stato a concedere le elezioni, Berlusconi ha capito che votando la sfiducia sarebbe andato incontro a una disfatta. E così, con l'abilità e la velocità che tutti gli riconoscono,  il leader del centrodestra ha ritirato la zampa un secondo prima che la tagliola scattasse. Certo, ora è più debole e tutte le grane cui sperava di sottrarsi sono ancora lì, senza nessuna soluzione.  Tuttavia, anche se costretto al voltafaccia, con il sì il Cavaliere è rimasto in campo, scaricando sul Pd l'eventuale onere di far fallire il governo.  Alla sinistra non piace stare nella stessa maggioranza con il «Caimano»? Pazienza, si dovrà rassegnare oppure dovrà far cadere l'esecutivo. Se qualcuno nel Pd sperava di lasciare il cerino delle tasse e delle mancate riforme nelle mani dei moderati, scaricando su di essi i propri fallimenti, purtroppo per lui ha sbagliato i conti. L'incapacità di mettere mano a una seria riforma fiscale, l'indecisione nei tagli alla spesa pubblica, la difesa degli sprechi e l'inefficienza della burocrazia continuano a rimanere patrimonio dei progressisti e dei sindacati più che del centrodestra. Tutto bene quel che finisce bene, dunque? Mica tanto. Pur considerando sbagliato nei tempi e nei modi lo strappo dentro il governo  (come si fa a comunicare al telefono l'ordine di dimettersi? Come si può far cadere un governo senza spiegarne le ragioni ai propri elettori?) non possiamo dirci sostenitori di Enrico Letta. Come i lettori sanno, abbiamo spesso criticato l'esecutivo per le mancate scelte. Nonostante la replica piccata del presidente del Consiglio, che nell'intervento al Senato ha rivendicato i propri meriti, in cinque mesi ha fatto poco o nulla. Invece di tirare fuori la grinta, il premier ha tirato fuori il peggio dell'andreottismo, facendo del rinvio un'arte. Per dirla con Renzi (che attribuisce la battuta ad Andreatta), invece di risolverli in questi mesi Letta ha accarezzato i problemi. Ma ora che i dissidenti hanno vinto, ora che in nome della stabilità hanno impedito la caduta del governo, accarezzare i problemi non basta: bisogna risolverli.  Noi siamo rimasti fermi al consiglio dei ministri di venerdì scorso, quello che doveva evitare l'aumento dell'Iva, abolire la seconda rata dell'Imu e varare il finanziamento degli ammortizzatori sociali. Ora che hanno di nuovo una maggioranza, ci aspettiamo che Letta e i suoi ministri decidano quanto era atteso. Riportino l'Iva al 21 per cento, cancellino l'ingiusta tassa sulla prima casa e trovino i fondi per i disoccupati: i soldi ci sono, lo ha detto Saccomanni.  Se così non fosse, non avrebbe perso Berlusconi e nemmeno i falchi. Avrebbero perso tutti, colombe comprese. di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet

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