Sindaci sanguisughe
Da Pisapia a De Magistris i primi cittadini della primavera di sinistra avevano promesso la rivoluzione, verranno ricordati solo per le imposte
Lo confesso: Giuliano Pisapia mi è simpatico. O per lo meno: mi era simpatico fino a che non è diventato sindaco di Milano. Pur essendo di sinistra, anzi di sinistra estrema, bertinottiano convinto e compagno di chi occupa edifici sfitti per trasformarli in centri sociali, lo trovavo assai poco ideologico e per di più molto critico verso i giustizialisti, al punto che lo suggerii a Berlusconi come ideale ministro della Giustizia. Dunque, quando si candidò a primo cittadino, sebbene non condividessi nulla o quasi del suo programma, pensai: peggio della Moratti non potrà fare. La signora dei petroli in cinque anni era riuscita a farsi detestare quasi da tutti, tanto era algida e malmostosa. All'avvocato erede di un principe del foro riconoscevo invece di essere così impacciato da risultare quasi amabile. Perciò, quando fu eletto, non dico che esultai, ma neppure mi strappai le vesti al pensiero che i cosacchi avrebbero abbeverato i loro cavalli in piazza Duomo. Purtroppo mi sbagliavo. Non per i cosacchi, che ormai non ci sono più e se ci fossero non cavalcherebbero quadrupedi ma autoblindo ed elicotteri e grazie al petrolio di cui dispongono in abbondanza da quelle parti non avrebbero bisogno di rifornirsi in piazza Duomo. A indurmi in errore è stata l'aria innocua di Pisapia, che per un certo periodo era stato anche collaboratore di un giornale di cui ero vicedirettore. Pensavo: nei suoi articoli ha sempre dimostrato buon senso e nonostante il suo credo politico non è un talebano rosso ma persona pacata. Invece, una volta conquistato Palazzo Marino, Giuliano si è rivelato altro. Non è diventato un incendiario, né ha seguito la strada di certi suoi ex compagni di partito come Francesco Caruso e Luca Casarini, i no global noti per la manifestazioni contro la polizia. Semplicemente Pisapia ha messo da parte la ragionevolezza. Bravo a concedere interviste in cui parla del futuro del paese, pessimo ad amministrare il presente di Milano. A metà del suo mandato, il bilancio politico della sua giunta non è modesto: è un disastro. E che bilancio. Basti dire che al rientro delle vacanze, i cittadini del capoluogo lombardo si sono ritrovati con una raffica di aumenti, a cominciare da quello degli abbonamenti del tram. Appena eletto, nella primavera del 2011, Pisapia presentò come biglietto da visita un incremento delle tariffe Atm, facendo salire il prezzo della corsa del 50 per cento. Ora ha abolito gli sconti per i pensionati e a gennaio si prepara a far pagare i biglietti 1 euro e 70 centesimi, quasi il doppio di quanto costavano ai tempi della sindaca-petroliera. Mica male per uno che in campagna elettorale aveva promesso di far viaggiare gratis gli over 65. Non è tutto. All'inizio del suo mandato Pisapia ha introdotto l'addizionale Irpef sulle famiglie monoreddito sopra i 45 mila euro: adesso si prepara a estendere la tassa a tutti, anche a chi dichiari un reddito di 15 mila euro l'anno, cioè al limite dell'indigenza. Centoventi euro per i poveri diavoli, seicentoquaranta per chiunque arrivi a 80 mila euro, ottocento per chi raggiunge i 100 mila, e così a crescere proporzionalmente. Il tutto con la giustificazione di dover risanare il bilancio e di dover contrastare i tagli imposti dalla spending review. La verità è che dal 2011 ad oggi Pisapia ha drenato dai portafogli dei milanesi una montagna di quattrini, di gran lunga superiore a quella che lo Stato ha tolto a Milano per via dei vari tagli. Nel 2010, ultimo esercizio a guida Moratti, la città aveva incassato 728 milioni dallo Stato e nel 2013 ne avrà 250, cioè 478 in meno. E però il totale delle entrate tributarie del Comune passerà da 631 a circa 1,5 miliardi, pari a circa 869 milioni in più rispetto all'ultimo anno di Madame idrocarburi. Soldi che, vale la pena di precisarlo, vengono dalle tasche dei cittadini. Senza contare che il sindaco bertinottiano convertito al vendolismo e ora al renzismo ha incassato anche 385 milioni dalla vendita del 29,75 per cento della Sea, la società che gestisce gli aeroporti milanesi. Insomma, in soli tre anni Pisapia con la scusa della lotta all'inquinamento ha imposto un ticket da cinque euro a chiunque varchi in auto i limiti del centro cittadino (prima si versava in base al modello di auto e dunque chi inquinava di più pagava di più) e con quella del disavanzo ha aumentato le tariffe di parcheggi, mense e asili. Non contento, ora vuole tassare anche i poveri (stima complessiva degli incassi da addizionale Irpef: 172 milioni). Tutto ciò, per non avere niente di più o di meglio della gestione Moratti, se non le case ai rom e le liti con l'archistar che guidava la delegazione del Partito democratico. Il bilancio è così disarmante, così terribilmente vuoto, che nel Pd preferiscono non parlarne, far finta di niente e aspettare che giunto a fine mandato Pisapia torni a fare ciò che gli riesce meglio: concedere interviste e fare l'avvocato. Ora, i lettori non di Milano che hanno avuto la pazienza di seguirmi fin qui si domanderanno perché io abbia dedicato tanto spazio al sindaco di una città che, seppur importante come Milano, non è l'Italia. La ragione è semplice: la storia del primo cittadino del capoluogo lombardo mi sembra molto simile a quella degli altri sindaci della cosiddetta primavera di sinistra. De Magistris a Napoli, Doria a Genova, Orlando a Palermo dovevano rappresentare il cambiamento. Passati gli anni (per Doria e Orlando solo uno) l'unica cosa che rappresentano invece mi pare il peggioramento. Del Comune da loro gestito e dei portafogli dei cittadini che glielo hanno affidato. di Maurizio Belpietro