Prima di Berlusconi cadrà Letta
I primi a volere la testa del premier sono i suoi compagni di partito, trombati dagli elettori ma desiderosi di riconquistare poltrone. Per riuscirci sono disposti a mettere a rischio il Paese
Siamo alla frutta, anzi all'ammazzacaffè, e a finire ammazzata è la timida esperienza di governo delle larghe intese. Come certificato ieri dal vertice di Arcore, o si trova una soluzione costituzionale alla questione che riguarda Silvio Berlusconi o qui viene giù tutto, esecutivo compreso. Cosa che alcuni giudicheranno forse positiva, ma per noi, che di Enrico Letta non siamo mai stati tifosi, rischia invece di farci andare di male in peggio. Intendiamoci: ad oggi di cose concrete questi ministri ne hanno fatte pochine, ma il premier ha le sue buone ragioni per essere rimasto fermo ai box. Prima ancora che echeggiasse lo sparo di inizio corsa, c'era già chi si esercitava a tirare su di lui e i più determinati erano proprio i suoi compagni di partito, cioè quelli che avrebbero dovuto gioire di aver mandato uno dei loro a Palazzo Chigi. Nei suoi primi cento giorni, Letta ha fatto da involontario tiro a segno sia per i renziani che per gli esponenti della vecchia guardia del Pd. L'ultimo in ordine di tempo a metterlo nel mirino è stato Massimo D'Alema, il quale, benché rottamato, non si rassegna alla pensione - per altro congrua - che gli viene garantita dal Parlamento, ma è sempre lì a brigare per rientrare dalla finestra dopo essere stato fatto uscire dalla porta. L'ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri, in un'intervista, ha liquidato l'attuale premier per dare il benvenuto al sindaco di Firenze, cioè a colui che alle ultime elezioni ne aveva reclamato il benservito. Niente di strano: si tratta di piroette cui la politica nazionale ci ha abituato. Del resto non c'è da stupirsi: a forza di capriole ad appoggiare il nuovo che avanza, cioè Matteo Renzi, sono arrivati due vecchi avanzi della prima Repubblica come Enzo Bianco, neo sindaco di Catania tornato all'incarico ricoperto negli anni Novanta, e Leoluca Orlando, anch'egli riemerso alla guida di Palermo dopo parecchi lustri trascorsi tra la Rete e Di Pietro. L'allegra brigata di sostenitori del cambiamento è su piazza da oltre trent'anni e da trent'anni sposa ogni battaglia pur di conservare il proprio potere, operazione che ad oggi è sempre riuscita con successo e probabilmente andrà a buon fine anche stavolta. Il fronte in cui ora sono impegnati i protagonisti degli ultimi decenni è, manco a dirlo, l'eliminazione di Silvio Berlusconi. Mentre ogni giurista è occupato a tirare la corda del diritto dalla parte da cui proviene, dimostrando che la legge non è uguale per tutti ma cambia a seconda della convenienza politica, invece di prendere tempo e riflettere sulla decisione dell'espulsione del capo del centrodestra dal Parlamento, D'Alema e compagni sono ansiosi di scrivere la parola fine alla storia, facendo decadere il Cavaliere. Non che gli importi molto del destino dell'ex premier: ciò che preme a lor signori è di mandare a casa Letta addossando la colpa al Pdl. Così, per i trombati dalla politica, quelli in crisi da astinenza da seggio, si rimetterebbero in moto i giochi e qualche grande escluso avrebbe la possibilità di imbucarsi di nuovo in Parlamento. La battaglia per la moralizzazione (via i condannati dalle Camere), si riduce a questo, ovvero al modo più rapido di ritornare alle urne facendo finta di non volerle, anzi di temerle. Il meschino spettacolo, come dicevamo, ha buone probabilità di riuscita, perché gli interessi della vecchia e nuova guardia del Pd si incrociano con quelli dei grillini, i quali, non essendo riusciti da febbraio a oggi a dare un senso alla loro presenza a Montecitorio e Palazzo Madama, sperano di farcela mandando a casa Berlusconi. A legislatura conclusa non avranno combinato nulla, disperdendo il patrimonio di consensi ottenuti alle elezioni, ma almeno potranno appuntarsi sul petto la medaglia di aver abbattuto il satrapo di Arcore, che, per chi abbia una provenienza di sinistra, è sempre un bel risultato. Anzi, il risultato. Nell'insieme, lo scenario è deprimente, perché tra tanti attori che recitano la parte dei difensori delle regole, non ce n'è uno che abbia a cuore la prima regola, ovvero la difesa dell'interesse nazionale, argomento che invece viene sempre messo in coda, quasi che prioritarie fossero le carriere di Renzi o di D'Alema e di qualche altro burocrate di partito. Ripetiamo: qui il Paese va a ramengo e da mesi si discute solo di come liquidare il capo dei moderati e sostituire Letta con uno che sia più di sinistra. Come se, licenziato il Cavaliere, magicamente si compisse il miracolo della moltiplicazione dei posti e dei prestiti. Di lavoro non ce n'è e di crediti neanche e nessuno - nemmeno Renzi - ha la capacità di camminare sulle acque. Dunque, il buonsenso imporrebbe di rimboccarsi le maniche e remare tutti nella stessa direzione, evitando di voler buttare a mare metà equipaggio, cioè il centrodestra. È chiedere troppo? Non sarebbe logico mettercela tutta invece di impiegare i propri sforzi in una resa dei conti? Purtroppo temiamo che le domande siano destinate a cadere nel vuoto. E alla fine l'epilogo sarà quello che denunciamo da settimane: il Cavaliere via dal Senato e Letta via da Palazzo Chigi, con un nuovo presidente del Consiglio gradito ai grillini. Pur se inclini al pessimismo, torniamo perciò a rivolgerci al capo dello Stato, mentre in queste ore si fa largo l'idea lanciata da qualche ministro di ricorrere all'amnistia per salvare il salvabile. A nostro parere, a questo punto, sarebbe meglio riesumare la soluzione della clemenza, perché un atto del Quirinale sarebbe la via maestra che eviterebbe strade tortuose e salverebbe pure il governo, impedendo a burocrati di partito in cerca di ruolo di farci precipitare tutti nella più nera delle crisi. Certo, per la grazia serve coraggio. O meglio: servirebbe un presidente coraggioso e non un capo dello Stato che tentenna di fronte a Repubblica. Alla fine, quasi quasi, ci toccherà rimpiangere la spregiudicatezza di certi vecchi comunisti come Togliatti, i quali certo non si facevano dettare la linea dai fogli radicali... di Maurizio Belpietro [email protected]