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Il Cav va assolto perché il reato è sbagliato

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Le toghe in primo e secondo grado hanno contestato la frode fiscale, ma in questo caso al massimo si tratta di elusioni: il processo va rifatto

Andrea Tempestini
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In Cassazione non si rifà il processo. Non si fanno sfilare i testimoni, né si presentano le prove a carico o a discarico dell'imputato. Per cui quello che rischia di essere il procedimento giudiziario esiziale per Silvio Berlusconi, è rimasto sullo sfondo, perso nelle nebbie di lunghe udienze tecniche svoltesi nel corso degli anni e di molti testi invocati dalla difesa in primo e secondo grado ma mai sentiti. Così, di fronte ai giudici della Suprema corte ieri non si è discusso del merito. L'avvocato Franco Coppi, il principe del foro che fece assolvere Andreotti e che è stato ingaggiato sul filo di lana, insieme con lo storico difensore di Berlusconi, Niccolò Ghedini, non hanno ripercorso la storia dei diritti Mediaset, dei film pagati con sovrapprezzo a un intermediario americano di origini egiziane.  Né si sono spesi a dimostrare che non esiste la pistola fumante, cioè la prova provata che il Cavaliere fosse a conoscenza di un sistema per pagare qualche milione in meno di tasse. Non hanno sostenuto l'incongruità della costruzione logica della pubblica accusa, la quale imputa a Berlusconi di non aver dichiarato 7,7 milioni in due anni, cioè poco più di tre e mezzo l'anno, quindi circa 2 milioni di imposte in meno, a fronte dei 500 versati. I legali non si sono neppure impegnati a dimostrare che per accusare un tizio di omicidio bisogna trovare il cadavere e qui il cadavere non c'è, ovvero non ci sono i soldi che l'ex presidente del consiglio avrebbe indebitamente accumulato all'estero. Ci fossero si potrebbe sostenere che egli ne ha tratto beneficio, ma il denaro alla fine non arriva nelle sue tasche e dunque – come nel caso Mills – non c'è un collegamento diretto, ma solo una deduzione giuridica, ammesso che la si possa chiamare tale.  Fosse stato possibile ripercorrere i punti chiave del processo, probabilmente Coppi e Ghedini avrebbero citato anche l'inverosimile assurdità del manager che ha frodato l'azienda e che viene ricompensato con qualche milione, vanificando dunque il vantaggio che Berlusconi avrebbe avuto se avesse ordito la frode fiscale. E probabilmente ci sarebbe anche stato il tempo per soffermarsi sulla altrettanto incredibile assoluzione di chi firmava i bilanci: come è possibile infatti che l'azionista  - che stava a Palazzo Chigi e non a Cologno - sia colpevole di frode e chi aveva la rappresentanza legale dell'azienda sia innocente? Se c'è frode è immaginabile che i vertici potessero non sapere e chi stava fuori azienda, impegnato a fare il presidente del consiglio, dovesse per forza sapere, anzi fosse l'utilizzatore finale della frode o, come ha sostenuto il procuratore generale, addirittura l'ideatore? Come sempre quando c'è di mezzo Berlusconi, il processo Mediaset  è pieno di cose che non tornano, di buchi nella ricostruzione fornita dalla Procura o semplicemente è privo di buon senso. Ma la Cassazione non è il luogo per affrontare tutto ciò. In quella sede ci si deve occupare solo di vizi formali, di ciò a cui ci si può appigliare per evitare una condanna. E infatti Coppi e Ghedini hanno puntato sui formalismi, sui riti del processo e su ciò che non è stato rispettato durante il dibattimento di secondo grado. Hanno sì lamentato l'impossibilità di ascoltare i testi che avrebbero potuto scagionare Berlusconi, ma senza insistere troppo. Coppi ha dato una stoccata ai giudici d'Appello sostenendo che la sentenza ruota intorno al pregiudizio e cioè che il Cavaliere fosse il dominus di tutto, anche di ciò che dentro il gruppo del Biscione non andava o era fuori regola. Tuttavia da «cassazionista» esperto, anche il legale che salvò Belzebù si è tenuto alla larga dalle polemiche e dalle implicazioni politiche, sapendo che mai la Suprema corte emetterà un verdetto di «condanna» nei confronti dei colleghi o di chi ha indagato. Troppo delicato il caso, troppo clamorosi gli effetti  di una simile decisione. Dunque alla fine i legali del Cavaliere hanno chiesto l'assoluzione, l'annullamento secco della condanna senza alcun rinvio, ma lasciando aperto lo spiraglio di una revisione della sentenza.  Il processo secondo gli avvocati dovrebbe essere rifatto, non solo perché in primo e secondo grado hanno applicato la misura interdittiva dei pubblici uffici in maniera troppo pesante, ma perché il reato contestato è sbagliato. Non si tratta di frode fiscale,  semmai di elusione. Di un sistema legale, permesso anche se discutibile, per  versare meno imposte. E perciò hanno lamentato la mancanza di una perizia su questo punto, quasi che nel guazzabuglio di norme fiscali solo il parere di un esperto avrebbe potuto mettere chiarezza in quel che è successo fra diritti, major e grandi film. La sorte di Berlusconi, il suo destino politico, più che alla sostanza è dunque appeso a un cavillo giuridico: a un granellino di polvere che infilato nell'ingranaggio della Giustizia potrebbe evitare al Cavaliere di soccombere nella ventennale guerra tra lui e le Procure. Servirà? Chi può dirlo. Ma poche ore ancora e sapremo se la sottigliezza è riuscita a fermare ciò che ai nostri occhi pare inevitabile.  di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet

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