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Ci teniamo i clandestini e cacciamo gli imprenditori

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Perfino un politico di sinistra come Fassina l'ha capito: spesso si evade per sopravvivere. L'alternativa è fuggire dall'Italia. Gli unici a rimanere sono gli stranieri che delinquono

Giulio Bucchi
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Da quando è assurto agli onori delle cronache e ci delizia con le sue dichiarazioni non ci è mai capitato di condividere le tesi dell'onorevole Stefano Fassina. Ieri però il viceministro dell'Economia ne ha detta una giusta che sottoscriviamo in toto. Di fronte ad una adunata di commercianti  ha infatti sostenuto che esiste una «evasione da sopravvivenza», ossia persone che non vorrebbero fare le furbe e non pagare il dovuto, ma vi sono costrette dalla situazione. Secondo il vice di Saccomanni «c'è una connessione stretta tra pressione fiscale, spesa ed evasione». Tradotto: più si spende, più salgono le tasse, più la gente si difende come può. Niente di nuovo per noi: da anni andiamo ripetendo che ad imposte alte corrisponde un'alta evasione. Più aumenti la pressione fiscale e più induci chi è alla canna del gas a cercare di sopravvivere in qualche modo, anche evadendo. Insomma:  se il Fisco diventa pesante, occhiuto e invasivo, spinge chi non ce la fa a non pagare. Ovviamente non parliamo di gentaglia che lo fa per guadagnare sempre di più, senza alcun senso civico e di solidarietà, ma di quegli imprenditori o commercianti un po' borderline, che tirano avanti sul filo del rasoio. Nel numero di Panorama in edicola il sociologo Luca Ricolfi, studioso di sinistra certo non sospettabile di simpatie per gli evasori,  spiega che ci sono professionisti, gioiellieri e altri che fanno i furbi, ma ci sono anche alcune decine di migliaia di piccole imprese del Centro Nord che evadono per necessità e se non lo facessero chiuderebbero, licenziando centinaia di migliaia di persone. Il professore aggiunge che nel Mezzogiorno, dove il tasso di evasione è circa il triplo di quello del Nord, andrebbe pure peggio:  l'intera economia meridionale sarebbe rasa al suolo. «Almeno un milione di persone perderebbe il lavoro, la gente scenderebbe in piazza contro lo Stato e il prestigio di mafia, camorra e 'ndrangheta salirebbe alle stelle». Ecco perché, conclude il docente subalpino,  la lotta all'evasione la si fa solo a chiacchiere o con qualche iniziativa un po' spettacolare. Perché se si facesse sul serio bisognerebbe essere pronti ad affrontarne le conseguenze: in termini di rivolta sociale e in termini di consenso. Su chi tira a campare senza pagare le tasse ingrassano i partiti - che sanno benissimo dove non si fanno gli scontrini e non si emette fattura - ma anche i sindacati, i quali chiudono un occhio per evitare che le aziende chiudano i battenti e i dipendenti dell'evasore si trasformino rapidamente da occupati in disoccupati. I quali, come è noto, non pagano le tasse ma soprattutto non pagano la tessera alle confederazioni. In modi diversi, Fassina e Ricolfi dicono la stessa cosa. Di troppe tasse si muore e dipingere chi non versa le imposte come se fosse un delinquente e non un imprenditore  messo alle corde dalla crisi e da uno Stato che non lo aiuta ma lo vessa, non aiuta a capire né a risolvere il problema.  Ieri, sulla prima pagina del Sole 24 Ore c'era la notizia di un'azienda di Albiate, Brianza, che ha deciso di trasferirsi nel Canton Ticino. L'industria, specializzata in forcelle per le biciclette, trasloca tutto, non solo i macchinari, ma anche i dipendenti. Seguendo l'esempio di molte altre imprese lombarde e venete, la Sintema Sport non va in Romania o in Serbia,  dove le garanzie per le maestranze e anche i salari sono ridotti al minimo: va nella vicina Confederazione, dove ci risulta che stipendi e costo della vita siano superiori a quelli nostri. Il titolare spiega l'addio all'Italia in modo chiaro, citando la tassa sui rifiuti che  costringe l'imprenditore, oltre a pagarla, a tenere un registro di carico e scarico del materiale da smaltire e lo obbliga a consegnare nell'apposito centro di raccolta lo scarto in eccesso. «Non ce la facciamo più», dice, «stiamo raschiando il fondo del barile». Altro che prevedere sgravi per chi assume, come si è deciso con il decreto del Fare. Qui i soldi e la fiducia per investire sul futuro non ci sono più e invece di fare si comincia a disfare. I nostri ministri e i nostri sindacalisti non hanno ancora capito che l'unica via per rilanciare l'economia, non far scappare le aziende e battere l'evasione è riassumibile in una sola parola: tagliare. Andare di forbici con le spese, la burocrazia, i tempi della giustizia e le tasse.  Questo è il solo modo conosciuto per far ripartire l'Italia ed evitare l'emigrazione delle imprese. Ma al contrario, noi,  mentre mettiamo in fuga chi vuole darci lavoro, ci teniamo gli immigrati che al posto del lavoro hanno scelto il crimine. Via gli industriali della Sintema Sport, dentro i picconatori alla Kabobo. Bell'Italia, con la picconata assicurata.      di Maurizio Belpietro

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