L'Italia all'asta: un saldo nel buio
Vendere patrimonio pubblico? "Libero" lo chiede da tempo. Ma sul mercato bisogna mettere caserme e palazzi, non aziende strategiche. Che magari finirebbero a prezzi stracciati ai soliti noti
Respinta la mozione di sfiducia contro Angelino Alfano e passata - almeno per ora - la buriana kazaka, si può tornare a parlare di cose serie. E tra queste la principale è dove trovare i soldi per abolire l'Imu ed evitare di inasprire l'Iva. A differenza della fine di luglio di altri anni, quando il Parlamento tirava a campare in attesa di mandare tutti gli onorevoli al mare, questa volta sul Palazzo incombono le decisioni economiche del governo. Per evitare che a settembre ci venga presentato il conto della tassa sulla casa, è infatti indispensabile che ad agosto si decida a quali fondi attingere per tappare la voragine che si aprirebbe nei conti dello Stato senza l'Imu e senza l'innalzamento di un punto di Iva. Finora le idee dell'esecutivo sono state poche e confuse. Tra un'espulsione di donne e bambine, una scaramuccia per la segreteria del Pd e una condanna di Berlusconi e dei suoi cari, i ministri hanno in queste settimane azzardato varie proposte. Si è parlato di cancellare l'imposta municipale unica sulla prima casa facendola pagare a chi ne ha una seconda. Si è ipotizzato di inasprire qualche altra gabella oppure di inventarne di nuove, restituendo cioè con un mano un po' di tasse per poi riprenderle con l'altra. Nessuna delle strampalate idee è però apparsa convincente, soprattutto nessuna è risultata in grado di coprire il disavanzo che si creerebbe senza l'Imu. Risultato? Ora avanza un'altra pensata, ossia i grandi saldi. Lo Stato si metterebbe in vendita, offrendo al miglior offerente la sua argenteria. Detta così, in termini molto generici, si potrebbe anche essere d'accordo. Noi stessi, sulle pagine di Libero, da anni sollecitiamo la dismissione dell'immenso patrimonio pubblico in modo da ridurre il debito che ci opprime. Ma, a differenza di quanto pensa il ministro dell'Economia, noi siamo per la cessione di ciò di cui l'Italia non ha bisogno, cioè palazzi, caserme, vecchie carceri, ossia quell'insieme di edifici che sono stati dismessi dall'amministrazione pubblica ma che ciò nonostante continuano a rimanere nella disponibilità dei ministeri. L'elenco degli stabili di proprietà dello Stato che lo Stato non usa è lunghissimo e dargli una sforbiciata non farebbe male a nessuno, ma potrebbe fare un gran bene alle casse pubbliche. Invece di fare questo, cioè un lavoro paziente di selezione degli immobili da collocare, Fabrizio Saccomanni pare stia pensando a mettere sul mercato le partecipazioni che ancora lo Stato conserva in alcune grandi aziende. Si parla di Eni, Enel, Finmeccanica, ma anche di Poste e Ferrovie. Tutto all'asta, da piazzarsi nelle mani del miglior offerente. Alcune dichiarazioni del ministro dell'Economia a mercati aperti hanno fatto crollare in borsa i titoli delle società interessate ai grandi saldi, ma questo è niente, perché il peggio deve ancora venire, soprattutto se si procederà alla vendita così come si fece nel passato. Ancora abbiamo nella mente gli esiti delle privatizzazioni volute da Romano Prodi. Banche e compagnie offerte al mercato a piccole dosi per poter creare un azionariato diffuso senza che vi fosse un singolo acquirente. In realtà, alla fine i soliti noti si comprarono il tutto a sconto, approfittando dei bassi prezzi di collocamento e così, con pochi soldi, divennero i padroni, come il caso Telecom insegna. Vorremmo insomma evitare che gli ultimi gioielli di famiglia fossero regalati a chi non ne ha bisogno, soprattutto se quei gioielli sono strategici per lo sviluppo di questo Paese. Gas, petrolio, energia, alta tecnologia, comunicazioni e trasporti è quanto si vorrebbe cedere, ma senza tutto ciò l'Italia sarebbe ancora più povera e ancor meno padrona del suo destino. In particolare ci preme capire quale sarebbe il giovamento del piano di saldi, perché vendersi i quadri di casa o gli anelli di fidanzamento se non si riducono le spese non serve a niente, se non a dilapidare più in fretta il poco patrimonio che resta. Passata la festa e speso il denaro, i problemi si ripresenterebbero tutti. E però sul fronte della spesa e degli sprechi non si segnalano iniziative del governo. O, meglio, si registra una decisione che va nel senso opposto. Dopo anni di studi (Giarda, il ministro di Monti, valutò a lungo la materia ma per decidere dove metter mano non gli sono bastati vent'anni) e di commissari (Enrico Bondi pareva il tagliatore senza macchia e senza paura, ma invece delle forbici usò la limetta delle unghie), Letta e compagni hanno deciso di nominare un altro super esperto, affidando a lui il compito di individuare dove usare le forbici. Per ora il primo risultato della nuova spending review è dunque un nuovo stipendio, che nei prossimi tre anni ci costerà un milione. E, visti i precedenti, niente ci garantisce che si tratti di un buon investimento. di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet