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Il moccioso Renzi dietro la lavagna

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Il sindaco ha provato a sfruttare il caso kazako per dare una spallata al governo. Ha pensato solo a se stesso e ha perso: ora non gli rimane che restarsene a Firenze, prospettiva che lo atterrisce

Giulio Bucchi
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Il ministro dell'Interno non poteva non sapere dell'espulsione di Alma Shalabayeva e della sua  bambina. Così spiegava ieri mattina in prima pagina sulla Repubblica un articolo di Carlo Bonini. Per sorreggere la sua accusa il quotidiano debenedettiano si faceva forte di uno scoop  ovvero l'esistenza di un dispaccio Ansa del 31 maggio. A un'ora dall'allontanamento forzato della moglie e della figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, l'agenzia di stampa aveva infatti diffuso la notizia. E dunque Angelino Alfano non poteva dire di non essere a conoscenza dell'espulsione perché carta canta. Tuttavia la pistola fumante che doveva far secco il ministro dell'Interno si è subito rivelata un petardo, in quanto non solo il lancio della notizia era noto, ma addirittura lo aveva citato lo stesso vicepremier nella relazione presentata alla Camera qualche giorno fa (pagina 10). A ciò si aggiunga che quelle poche righe messe in rete la sera del 31 maggio non dimostrano affatto quanto si vorrebbe. Secondo il giornale che più si è dato da fare per ottenere le dimissioni del segretario del Pdl, il numero uno del Viminale non può dire di aver appreso del caso il 2 di giugno, quando glielo riferì Emma Bonino, perché l'Ansa lo aveva informato prima. Già, l'Ansa. Per Repubblica Alfano dovrebbe passare il suo tempo a leggersi tutti i dispacci dell'agenzia, mentre chi, come i giornalisti di Repubblica, lo dovrebbe fare per mestiere lo può evitare. Infatti, se c'e qualcuno che non avrebbe dovuto farsi scappare la notizia, pubblicandola con tutta evidenza in prima pagina, questi erano sicuramente i cronisti debenedettiani, i quali invece in quei giorni bucarono la storia, non degnandola d'interesse e trascurandola per settimane, anche quando noi di Libero la commentavamo in prima pagina. Dov'erano quel giorno gli scoopisti di Repubblica? Ma se al Viminale dormivano, in redazione cosa si faceva? I cronisti d'assalto erano per caso in letargo?  Insomma, il blitz estivo del quotidiano di riferimento della sinistra è finito nel ridicolo. Così come un esito grottesco ha avuto la spallata di Matteo Renzi al governo delle larghe intese, che proprio la Repubblica con gli inviti alle dimissioni di Alfano ha a lungo fiancheggiato. In questo caso la pistola puntata era quella della mozione individuale di sfiducia,  che pur essendo stata presentata da Sel e Movimento cinque stelle, avrebbe dovuto essere votata da mezzo Partito democratico. L'operazione mirava a scalzare Enrico Letta per tramite del ministro dell'Interno. Far secco quest'ultimo, cioè il capo delegazione di uno dei principali partiti che compongono la maggioranza, avrebbe infatti significato eliminare lo stesso premier che lo aveva difeso, e dunque mandare a casa in blocco l'esecutivo delle larghe intese per arrivare a rapide elezioni che incoronassero il sindaco di Firenze.  Tutto era pronto, visite all'estero comprese (a  proposito: pare che Matteuccio  nostro si appresti a volare negli States per incontrare Obama, così da farsi celebrare come il più amato dagli americani), ma qualcosa a un certo punto è andato storto. Forse la storia del povero esule con 1400 metri quadrati di villa nel centro di Londra e tre o quattro mandati di cattura per truffa ha iniziato a scricchiolare. Forse qualcuno si è messo di traverso, trovando incredibile che una parte del Pd impallinasse un esecutivo guidato da un esponente del Pd. Forse, più semplicemente, Giorgio Napolitano ha deciso che il giovanotto toscano, con le sue interviste, fosse diventato un po' troppo petulante. Sta di fatto che prima la segreteria del Partito democratico ha deciso di non appoggiare la mozione di sfiducia, poi il gruppo al Senato ha fatto altrettanto lasciando con il cerino in mano i pochi incendiari rimasti (in tutto tre renziani), infine il presidente della Repubblica, dopo essersi dispiaciuto per l'espulsione di una donna e di una bambina di sei anni, ha dato uno scappellotto a quel moccioso di Renzi mettendosi a montare la guardia al governo.  La discesa in campo di Napolitano a difesa di Letta & Co. ha insomma messo l'esecutivo in una botte di ferro. Come dire: costi quel che costi, anche una spaccatura del Pd, ma questa maggioranza non si tocca. Risultato, per il sempre più loquace Matteo Renzi (Gian Antonio Stella ha calcolato che in media concede un'intervista ogni sei giorni) adesso sono kazaki amari. Senza elezioni e senza possibilità di diventare premier entro l'anno, è condannato a fare il sindaco almeno fino alla fine del suo mandato. E, a quanto pare, è un'ipotesi che lo atterrisce. di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet

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