Trappola democratica per mettere in croce il Cav
Nell'esecutivo il Pd ha messo le seconde linee e in ruoli marginali: così i compagni possono sfilarsi al primo incidente, incolpando gli azzurri che sono nei posti chiave
di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet Ci sono voluti sessantuno giorni per fare il governo e adesso dovremo iniziare a contare quanti ce ne vorranno per disfarlo. Già, perché quello che lunedì si presenterà alle Camere per chiedere la fiducia è un esecutivo a bassa caratura politica, esattamente ciò che chiedeva il Partito democratico per potersi sfilare appena possibile. È vero, il Pd ha prestato a Palazzo Chigi il suo vicesegretario, ma nulla più di questo. Quando, dopo averla comunicata a Giorgio Napolitano, Enrico Letta ha ufficializzato la lista dei ministri, abbiamo fatto fatica a riconoscere nell'elenco i nomi riconducibili al partito che a Montecitorio ha la maggioranza. L'unico che si distingue nel catalogo di sconosciuti con in tasca la tessera della sinistra è Dario Franceschini, cui però è stato affidato un ministero di terza fila, quello dei rapporti con il Parlamento, dicastero senza portafoglio e, soprattutto, senza visibilità, cui non spettano scelte su materie decisive. Appena un po' familiare è il nome di Andrea Orlando, che fino a ieri si occupava di giustizia e ora guiderà l'ambiente, ma tutti gli altri uomini di Bersani sono militi ignoti o quasi. A cominciare da Massimo Bray, sul cui curriculum non aiuta neppure wikipedia e a cui Enrico Letta ha affidato i beni culturali, per finire a Cecile Kyenge, che occuperà la poltrona di responsabile dell'Integrazione. Poco di più si sa del ministro per la Coesione Territoriale, Carlo Trigilia, sociologo dell'Università di Firenze, e lo stesso si può dire di Maria Luisa Carrozza, fresco numero uno dell'Istruzione che pur essendo stata rettore della scuola Sant'Anna di Pisa non è di sicuro una celebrità. È pur vero che dell'esecutivo sono entrati a far parte Flavio Zanonato (Sviluppo), sindaco Pd di Padova, e Graziano Del Rio (Fffari Regionali), primo cittadino di Reggio Emilia, renziano di ferro e presidente dell'Anci, l'associazione che raggruppa i comuni italiani. E che nel gruppetto c'è anche Iosefa Idem, olimpionica tedesca naturalizzata italiana, cui sono stati affidati lo Sport e le Pari opportunità. Ma si tratta di nove ministri su ventuno e, se non si considera il presidente del Consiglio, nessuno ha ruoli chiave. Gli Interni sono stati lasciati ad Angelino Alfano. L'Economia a Fabrizio Saccomanni, cioè a Bankitalia. La Giustizia ad Anna Maria Cancellieri. Gli Esteri a Emma Bonino. Il Lavoro a Enrico Giovannini (Istat). I Trasporti e le Infrastrutture a Maurizio Lupi (Pdl). La Difesa a Mario Mauro (Scelta civica). La Salute a Beatrice Lorenzin (Pdl). L'Agricoltura a Nunzia De Girolamo (Pdl). Quelli che un tempo la Dc rivendicava per sè, per controllare la spesa e le clientele, il Partito li ha scartati. Per questo motivo risulta evidente che il Pd ha scelto per sè un ruolo di secondo piano, tentando di caratterizzare il meno possibile con i propri uomini il governo. Si, ci sono ministri riconducibili al Partito Democratico, ma quasi tutti di seconda o terza fila. I numeri uno non volendosi sporcare le mani con il governo dell'inciucio hanno preferito fare un passo indietro. In pratica ha vinto Rosy Bindi, o, meglio, la sua linea, che per l'esecutivo di emergenza col Pdl sosteneva la necessità di metterci ministri di secondo piano, in modo che non si guastasse l'immagine del partito. Teoria apparentemente bizzarra, soprattutto se si tiene conto che la situazione economica richiede un governo forte, ma che ha una sua logica nella volontà di avere le mani libere. Se i ministri fossero stati Epifani, D'Alema, Fassino, Bindi o Violante sarebbe difficile, se non impossibile, disconoscere la paternità del Pd. Così al contrario sarà più facile. L'esecutivo a bassa caratura politica (definizione della presidentessa dimissionaria) si può liquidare quando si vuole, dando la colpa delle politiche economiche alla Banca d'Italia e all'Istat. O, meglio ancora, gettando la croce addosso al Popolo della Libertà, l'avversario cui sono stati lasciati alcuni dei posti chiave, come ad esempio gli Interni, le Infrastrutture, la Salute o le Riforme. Qualche giorno fa avevamo invitato il centrodestra a stare in guardia, ritenendo che nonostante la disastrosa gestione dell'elezione del presidente della Repubblica, il Pd fosse tutt'altro che domo. Del partito di Bersani temevamo il colpo di coda, immaginando una trappola. Vorremmo sbagliarci, ma la puzza di bruciato è forte. Qui il gioco ci pare quello del cerino. Attenzione amici del Pdl: ad avere i ministri ma non i voti per far passare le loro leggi c'è pericolo di bruciarsi.