Un Lettino per il Pd: il guaio di Enrico è la sinistra
Preparato, rispettabile, educato. Ma proprio per questo il "bravo ragazzo" farà fatica a fare un esecutivo forte. E coi democratici messi così male...
di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet Da presidente dei pulcini europei della Dc, nel 1991, era considerato una giovane promessa. Da allora è passato quasi un quarto di secolo ed Enrico Letta continua a rimanere una promessa della politica italiana, con la sola differenza che è un po' meno giovane. A 46 anni, quasi 30 dei quali trascorsi facendo vita di partito, il neo incaricato presidente del Consiglio è già un veterano del Parlamento e del governo. Essendo divenuto ministro della Repubblica a 32 anni, all'epoca del primo esecutivo D'Alema, può vantare un passato che altri, pur più grandicelli, si sognano. Tre volte ministro, prima delle Politiche comunitarie e poi dell'Industria, vicesegretario nazionale del Ppi e poi del Pd, sottosegretario alla presidenza del Consiglio quando il premier era Prodi, parlamentare europeo, segretario del comitato euro del ministero del Tesoro, membro dell'Arel, dell'Aspen e della Trilateral, cioè delle associazioni che riuniscono i poteri forti. Con un simile curriculum il nipotino del più noto Gianni Letta dovrebbe aver sfondato da un pezzo, essere cioè un leader di prima grandezza. E invece i suoi trent'anni in politica sono trascorsi senza lasciare il segno. Intendiamoci: su di lui nulla da dire. O meglio, c'è da dirne un gran bene, fin troppo. Tuttavia, pur avendo ricoperto molti prestigiosi incarichi, finora non ce n'è uno che sia passato alla storia. Giampaolo Pansa, nel volume dedicato ai tipi sinistri, cioè ai gironi infernali della Casta rossa, è riuscito a citarlo due volte, ma solo di sfuggita. Una volta per un commento a proposito dell'idea di Dario Franceschini di garantire a tutti i disoccupati un assegno mensile, cioè una specie di reddito minimo di cittadinanza. Un'altra per le primarie del Pd che incoronarono Walter Veltroni, con un risultato bulgaro prossimo al 76 per cento, segretario del partito: lui, che pure sfidava l'ex sindaco di Roma, si fermò all'11, dietro a Rosy Bindi. Il 24 luglio del 2007, quando si candidò alla guida del Pd, disse che con lui il partito sarebbe somigliato a un quadro di Van Gogh, cioè a tinte forti, dove il giallo è giallo e il blu è blu. In realtà, in politica Enrico Letta predilige le tinte lievi, così lievi da sembrare annacquate. Non che manchi nel riconoscere i problemi, anzi. Nel 2009, quando mi capitò di intervistarlo subito dopo le dimissioni di Walter Veltroni provocate dalle rovinose sconfitte in Abruzzo e Sardegna, il futuro premier le cantò chiare, parlando di otto settembre del centrosinistra. Di più: sollecitato dalle domande si spinse a sostenere che lo statuto del Pd era «barocco e schizofrenico», un «mix di masochismo e autolesionismo», e da lì discendevano «molti degli errori inanellati». Secondo Letta, senza un aggiustamento, del centrosinistra non ci sarebbe stata più nemmeno l'ombra. Da allora sono trascorsi quattro anni e lo statuto, cioè la causa di tutti mali, è ancora lì, ma nel frattempo Letta è diventato vicesegretario del Pd e, ieri, presidente incaricato. Di lui non si ha memoria neppure per il periodo trascorso a Palazzo Chigi nel ruolo di sottosegretario di Romano Prodi. Mentre lo zio, che con Berlusconi lo aveva preceduto nell'incarico, teneva ben salde le briglie del governo, Enrico finì quasi subito disarcionato dalla macchina amministrativa e di lui si persero presto le tracce, per ritrovarle più tardi, sul finire del mandato di Prodi, quando tornò a farsi vivo per sfidare appunto Veltroni. Nel complesso, il suo ruolo non parve a nessuno decisivo, perché i dossier più scottanti rimasero nelle mani del professore e del suo cerchio magico, a cominciare dal progetto riguardante lo scorporo della rete Telecom su cui scivolò lo scomparso Angelo Rovati. Per tutte queste buone ragioni e per i non proprio eccezionali trascorsi, non vorrei che l'incarico affidatogli da Giorgio Napolitano di formare il governo fosse un compito al di sopra delle sue possibilità. Come ho detto, Enrico Letta è un bravo giovane, un politico educato e competente, che si esprime bene e non insulta mai i suoi interlocutori, neppure quando nei dibattiti tv gli animi si infiammano e le polemiche prendono una brutta piega. Ma basta tutto ciò per riuscire a formare un esecutivo in un momento economico tra i più difficili e in una situazione politica tra le più intricate? Come è noto il Pd, per le sue faide interne, in meno di due mesi si è divorato Pier Luigi Bersani, Rosy Bindi, Franco Marini e Romano Prodi, cioè alcuni dei suoi padri fondatori e dei suoi esponenti di maggior spicco. Quanto ci metterà perciò un partito ridotto a una penisola balcanica a mangiarsi uno come Letta, che per giunta proviene dalla Margherita, cioè dalle file più moderate del Pd? La mia sensazione è che, pur essendo una persona assolutamente rispettabile, il presidente del Consiglio incaricato sia troppo debole per poter fare un governo forte. Al contrario dei quadri di Van Gogh il giovane Enrico è un politico a tinte pallide e temo che l'esecutivo sarà a sua immagine e somiglianza. In pratica avrà vita breve. Anzi, forse brevissima, visto che lui stesso ieri ha ammesso che non farà un governo a tutti i costi.