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Napolitano ci risparmi Amato

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Il presidente-domatore è stato efficace nel bacchettare Bersani e compagni per le loro responsabilità però la soluzione che ha in testa fa paura: il ritorno dell'uomo che svuotò le tasche di notte

Lucia Esposito
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di Maurizio Belpietro Giorgio Napolitano, insediandosi per il suo secondo mandato, ha messo sul tavolo la pistola delle dimissioni. Prima ancora di dire quali fossero le sue intenzioni e che cosa avesse in animo di fare per dare a quasi due mesi dalle elezioni un governo all'Italia, ieri il presidente riconfermato ha minacciato di andarsene al primo segno di confusione. Il tono adottato dal capo dello Stato  di fronte al Parlamento non è stato quello dell'uomo super partes chiamato a regolare il traffico e a dirimere le dispute di viabilità, ma quello di un monarca assoluto che detta le sue condizioni al Paese. Anzi: il suo discorso pareva quello di un preside venuto a fischiare la fine della ricreazione e pronto, se necessario, a espellere i ragazzini troppo vivaci che non si adeguano alla disciplina della scuola. Napolitano in aula si è presentato con la frusta, distribuendo scudisciate a tutti, ma in particolare alla parte politica di cui è espressione. Sì, è vero, ha richiamato  tutti i partiti alla responsabilità, rimproverando loro di non aver fatto le riforme con cui da anni si riempiono la bocca. Ma il succo del discorso è stato una predica al Partito democratico e ai suoi vertici, i quali,  non contenti di aver sfasciato il partito, ancora ieri sembravano intenzionati a sfasciare il Paese. Altro che il no della Bindi alle larghe intese e il sì dei giovani turchi alle sirene grilline. Per il capo dello Stato è  inutile parlare di cambiamento - come ha fatto dal 25 febbraio Pier Luigi Bersani - se poi non ci si misura concretamente con i problemi dell'Italia, vale a dire con i temi che riguardano il mondo del lavoro e dell'impresa.  La sferzata ha colpito sia chi non si dà da fare per offrire un segno di rinnovamento sia chi alimenta e ingigantisce l'insoddisfazione popolare, mirando a demolire il mondo politico e istituzionale. Per Napolitano la rete è importante, ma non è il nuovo credo di fronte al quale genuflettersi. Può essere di stimolo, ma non garantisce una partecipazione realmente democratica e dunque uniformarsi ai suoi indirizzi è una fesseria. Come non vedere in queste parole un messaggio preciso diretto a un  partito, il suo, in stato confusionale, che dopo essersi piegato alle primarie ha accettato di farsi guidare on line, quasi che basti un tweet a dettare la linea a un partito. Ma se questo è stato l'antipasto, il piatto forte ha riguardato il tema del giorno, ovvero il governo di larghe intese.  La questione è sul tavolo da 56 giorni, cioè da quando è stato reso noto il risultato elettorale. Chiunque fosse dotato di buon senso avrebbe capito che, per evitare che si ripetessero le elezioni, le quali per altro avrebbero potuto riconfermare le percentuali uscite dall'urna a fine febbraio, l'unica strada possibile era costituita da un accordo fra schieramenti diversi. Chiunque ma non il Pd e i suoi vertici, i quali hanno preferito illudersi che vi fossero piste alternative, come ad esempio quella dell'inciucio con il Movimento Cinque stelle.  Le parole dell'inquilino del Quirinale sembravano fatte su misura per Pier Luigi Bersani. Il capo dello Stato, infatti, ha detto chiaro e tondo che le elezioni non le ha vinte nessuno, perché nessuno è in grado di governare da solo e dunque è necessario  mettersi d'accordo. Si rassegni la Bindi, si rassegnino gli incendiari alla Renzi che sotto sotto sognano la rottura per poter scendere in campo e giocare la partita. Si rassegni anche Beppe Grillo, che gioca tutto sullo sfascio. Per Napolitano, che dopo le dimissioni di Bersani da segretario è il vero capo del Pd, se si vuole fare i conti con la realtà delle forze in campo in Parlamento, le larghe intese si devono fare per forza, piaccia o no. Qualunque prospettiva si sia presentata agli elettori o qualunque patto si sia stretto, non si può prescindere dai dati di fatto.  Insomma, destra e sinistra si devono piegare alla convivenza forzata, perché altra possibilità non esiste. E per dar forza al concetto, l'uomo del Colle si è pure fatto forte dell'esperienza inglese, dove conservatori e liberali vanno a braccetto non potendone fare a meno. Per ora Napolitano esclude lo scioglimento delle Camere, tenendo però la pistola in pugno e minacciando sia le sue dimissioni che quelle forzose dell'intero Parlamento. Basterà tutto ciò a indurre i riottosi ad adeguarsi? Sarà sufficiente aver brandito la frusta, trasformandosi a quasi ottantotto anni in un domatore di leoni (a Bersani  le metafore dedicate ai grossi felini piacevano tanto e infatti parlava di smacchiare il giaguaro e di sbranare chi accostava il nome del suo partito allo scandalo del Monte dei Paschi di Siena), per rimettere ordine nel circo del Partito democratico? Per quanto ci riguarda siamo pessimisti e non già in quanto non riteniamo Napolitano in grado, da vero comunista, di ammaestrare delle giovani marmotte spaventate da un Grillo parlante, ma perché se le larghe intese si riducono a un ristretto Amato, c'è poco da parlare di cambiamento e risposta all'insoddisfazione dell'opinione pubblica. Alla fine, la montagna dei partiti e delle istituzioni partorirà il topolino di Craxi. Uno che di notte svuotò le tasche degli italiani, e di giorno ancora progetta di asciugarle, non è il miglior modo per voltare pagina. Va bene la monarchia, ma la tassa sul macinato no.    

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