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Prodi insaccato, Pd spacciato

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Dopo Marini, Bersani brucia Prodi. Un capolavoro di incapacità che condanna il Paese a restare senza guida

Eliana Giusto
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di Maurizio Belpietro Bisogna ammettere che Pier Luigi Bersani ce la sta mettendo tutta per farsi ricordare come il peggior leader che la sinistra abbia mai avuto dal dopoguerra ad oggi. Dopo la batosta elettorale, l'insuccesso dell'esplorazione per la formazione  del nuovo governo e la sconfitta della candidatura di Franco Marini per la più alta carica dello Stato, ieri il segretario del Pd ha dovuto incassare la disfatta della bocciatura di Romano Prodi. Bersani credeva ieri mattina di avere trovato la soluzione di tutti i suoi guai e per unificare un partito dilaniato dalle lotte intestine aveva estratto dal cilindro il nome dell'ex presidente della Ue, convinto che il fondatore dell'Ulivo fosse in grado se non di pacificare il Paese almeno di unire il Pd. Una decisione che si è in realtà rivelata un tragico errore. Privato del sostegno del Pdl e della Lega, l'ex presidente del Consiglio ha preso meno voti di quanti ne avesse avuti Franco Marini il giorno prima: 395 contro i 521 ottenuti dal lupo marsicano. Prodi si è dunque rivelato quel che si immaginava: una marmotta, che uscita dal letargo in cui era stata confinata dagli stessi esponenti del centrosinistra non è riuscita a scalare il Colle ma si è fermata molto lontano dalla vetta. Un risultato che chiunque avesse un minimo di sale in zucca avrebbe potuto prevedere. Chiunque ma non Bersani. Il fondatore dell'Ulivo infatti non solo non ha aggiunto un consenso in più al centrosinistra, che  da solo di voti ne poteva mettere in campo ben 495, ma ne ha persi  oltre cento.  Per superare la boa della metà più uno dei grandi elettori, a Prodi servivano appena nove voti, ma alla fine ne sono mancati 110. Un risultato disastroso. Una débâcle in piena regola. Che per la verità era stata anticipata da una raccolta di firme più di una settimana fa. Secondo quanto riferito dal Corriere, 120 tra deputati e senatori avevano posto la loro sigla sotto un documento in cui scongiuravano i vertici del partito, invitandoli a evitare la candidatura di Prodi. Detto fatto. Alla prima difficoltà, Bersani ha richiamato dall'Africa l'ex presidente del Consiglio. Come possa aver pensato che un signore cui non era riuscito per ben due volte di tenere unita la propria maggioranza, fosse in grado di tenere insieme gli italiani o anche solo i gruppi parlamentari della sinistra, è un mistero.  Caso più unico che raro, Prodi dopo aver vinto nel 1996 e nel 2006 le elezioni con l'incredibile armata rossa, è finito per essere pugnalato dalle sue stesse truppe:  una prima da Rifondazione comunista, un'altra da un senatore di estrema sinistra e da un monarchico rifugiatosi sotto i petali della Margherita.  Altro che presidente condiviso, se Prodi fosse stato eletto avrebbe diviso ancora di più il Paese, spaccandolo tra sostenitori e avversari. Non soltanto per la storia che l'ex presidente della Ue porta sulle spalle,  che pure conta (a partire dal lato oscuro della seduta spiritica durante il caso Moro fino a quello poco chiaro delle privatizzazioni e dell'entrata nell'euro) ma anche perché in almeno due occasioni egli è stato il leader della coalizione di centrosinistra, cioè il capo di una parte degli italiani che ha sfidato e vinto il capo dell'altra parte, quella di centrodestra. La sua nomina inevitabilmente sarebbe finita per rappresentare gli uni (i cosiddetti  progressisti) contro gli altri (i conservatori), con ciò che ne consegue in fatto di veleni e sospetti durante il settennato. Anche se Prodi si fosse dato da fare per apparire un presidente della Repubblica super partes, sarebbe sempre stato il capo dell'Ulivo  e ogni sua decisione sarebbe stata sospettata di favorire la fazione di provenienza. È per questo che nel passato mai nessun leader di primo piano è mai stato mandato sul Colle. Al Quirinale non ci andarono né Alcide De Gasperi, né Aldo Moro o Amintore Fanfani, e quando la Dc provò a imporre con la forza il suo segretario Arnaldo Forlani, il candidato fu impallinato. E così è stato anche per  Mortadella. Ma ora che l'ex presidente della Ue è stato archiviato dai suoi stessi compagni (il rottamatore Matteo Renzi che voleva spedire il rottamato Prodi sul Colle, dopo il voto delle Camere si è subito incaricato di dargli il calcio dell'asino), contro ogni logica e il più elementare buonsenso, Bersani potrebbe completare la serie dei suoi tentativi di accreditarsi come leader politico, sbagliando ancora. E cioè insistendo con altri candidati a perdere, nella speranza di un ripensamento del Movimento Cinque stelle o in una rinuncia di Stefano Rodotà. Ieri infatti Bersani ha annunciato le sue dimissioni, ma solo dopo l'elezione di un presidente. Fino a tardi i vertici del partito hanno tentato di avviare una trattativa con i pentastellati e non escludiamo che oggi, per la quinta votazione, tentino qualche altro gesto disperato. L'agonia di un segretario  che, non essendo capace di guidare il proprio partito ha provato a guidare il Paese, dunque potrebbe protrarsi oltre il dovuto. Siamo a due mesi dalle elezioni e non abbiamo né un governo, né un presidente della Repubblica, né un Parlamento funzionante. Siamo cioè un autobus che corre sprovvisto di conducente. L'unica speranza è riposta in un altro mezzo di locomozione: l'aereo che riporterà Prodi in Africa. Speriamo che sul velivolo vengano imbarcati anche Bersani & compagni, a cominciare da Veltroni, che in fondo di andare a quel paese ce l'ha promesso da un pezzo..        

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