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Fermiamo Mortadella

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Dietro ai nomi di bandiera, è lui il vero candidato tanto del Pd che dei grillini. Ma tutta la sua storia e i suoi fallimenti dimostrano che è l'uomo meno indicato per ricoprire la prima carica della Stato

Nicoletta Orlandi Posti
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di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet Il Movimento Cinque stelle ha scelto: sul Colle vuole Milena Gabanelli. La giornalista della Rai è un nome di tutto rispetto, che ben tredici anni fa, quando non era ancora la Madonna pellegrina della sinistra che è adesso, segnalammo con una lunga intervista su il Giornale. Ciò premesso, abbiamo la sensazione che Grillo abbia candidato la collega per perdere. O meglio: il leader pentastellato sta usando la conduttrice di Report per fare un po' di spettacolo, ma sotto sotto le sue intenzioni sono altre e cioè di portare al Colle uno dei nove nomi votati dalla rete, guarda caso il penultimo. La carta segreta che il comico ligure si vuole giocare per trovare l'intesa con Bersani ed evitare un ritorno ad elezioni che con certezza  lo punirebbero, è il professor Mortadella. È lui il candidato in sonno, quello inserito a sorpresa nella rosa delle primarie meno trasparenti della storia, in cui nessuno sa chi ha votato, quanti voti ha preso ciascun candidato e chi abbia controllato il regolare svolgimento delle consultazioni. Nomi di bandiera come Gabanelli  e Rodotà sono stati messi lì per fare scena e aprire una trattativa per l'inciucio con il Pd. Ma l'asso che si intende calare (ed eleggere) dopo la terza votazione si chiama Romano Prodi. È lui il candidato unico del Pd ed anche il solo che Grillo e la Casaleggio associati  sono pronti a far passare con il consenso dei cittadini. Certo,  è paradossale che il nuovo che avanza sia pronto a eleggere un avanzo della Prima repubblica. Come abbiamo già scritto, l'ex presidente del Consiglio e dell'Unione europea sta in politica da 35 anni, cioè da quando regnava Andreotti. Prodi fu infatti ministro dell'Industria nel quarto governo di Belzebù, nello stesso gabinetto in cui sedevano Ciriaco De Mita, Arnaldo Forlani, Mario Pedini, Franco Maria Malfatti, Tony Bisaglia, Vincenzo Scotti, Vittorino Colombo e Tina Anselmi, cioè i dinosauri di una politica appartenente all'era geologica triassica. All'epoca alla Casa Bianca c'era Jimmy Carter,  l'ayatollah Khomeini era appena rientrato in patria e Pol Pot  era ancora il sanguinario dittatore della Cambogia. Eppure Prodi era già in pista e di lì a poco avrebbe lasciato il ministero, ma solo per essere nominato dal governo Spadolini  presidente dell'Iri, cioè dell'ente più lottizzato e più sprecone delle Partecipazioni statali. Ai vertici dell'istituto rimase per sette anni, cioè fino alla fine degli anni Ottanta, ritornandovi poi in tempo per le privatizzazioni.  Che cosa abbia fatto il professore in quei lunghi anni alla guida del più grande ente statale è noto. Per quanto egli si affanni a sostenere di averlo risanato (con l'ausilio di decine di migliaia di miliardi pubblici), resta il giudizio lapidario di Enrico Cuccia, il quale nelle sue memorie liquidò il Prodi manager annotando che aveva solo imputato a riserva il disavanzo della siderurgia, perdendo esattamente come tutti i suoi predecessori.  Il salvatore aveva insomma fatto ricorso ad un artificio, a un trucco contabile, facendo sparire le perdite dal bilancio per poi farle riapparire altrove. Il futuro presidente del Consiglio il meglio però lo diede quando si trattò di dismettere le aziende statali. Non solo si accordò per  cedere per  un tozzo di pane la Sme a Carlo De Benedetti  (operazione che fu fermata da Bettino Craxi consentendo anni dopo allo Stato di incassare il quadruplo di quanto avrebbe pagato l'ingegnere di Ivrea) e per due lire l'Alfa Romeo alla Fiat, ma liquidò con esiti a dir poco disastrosi le partecipazioni che l'Iri aveva nelle cosiddette Banche di interesse nazionale. Gli istituti vennero messi  sul mercato, ma anziché cederli tutti in blocco ad un solo acquirente, Prodi preferì la via dell'azionariato diffuso. Ufficialmente passò per il paladino dei piccoli azionisti contro il latifondo capitalistico rappresentato da Mediobanca, accusata di essere un centro di potere economico dominante, ma in realtà la cessione si rivelò proprio un affare per  Mediobanca e i suoi soci. Il Credito italiano fu piazzato a un prezzo di vendita per azione fissato da Goldman Sachs  -  la banca d'affari di cui poi il professore sarebbe diventato consulente - in 2075 lire, contro una valutazione che Massimo Pini  - consigliere di amministrazione dell'Iri - tenendo conto del patrimonio netto stimò in 2900, e un anno prima Merrill Lynch calcolò in 6 mila lire ad azione in caso di vendita in blocco del pacchetto Iri. Risultato: lo Stato, azionista dell'ente, incassò circa la metà di quello che avrebbe potuto incassare. Non solo:  Mediobanca, mettendo insieme un gruppo di investitori, riuscì comunque ad assicurare un nocciolo duro di azionisti alla banca. Altro che azionariato diffuso: di fatto i nuovi padroni risparmiarono, perché pagarono un bel po' di meno le azioni, ma poi grazie al frazionamento del capitale non furono costretti  a lanciare l'Opa fino al cento per cento.  Insomma, ci perse lo Stato e ci persero anche i piccoli investitori. Più o meno lo stesso accadde con la Comit. Entrambe le banche furono privatizzate e trasformate in public company con il divieto per ogni socio di possedere più del tre per cento. «Tuttavia», scrisse Massimo Pini nel libro dedicato all'Iri, «per un abile e reputato banchiere  come Enrico Cuccia fu un gioco da ragazzi mettere insieme un gruppo di azionisti, e sommando  il 3 per cento di ciascuno, fare nelle assemblee il bello e il cattivo tempo, in modo da avere una stabile maggioranza nei consigli di amministrazione e quindi il bastone di comando». Il giornalista economico Massimo Riva commentò su Repubblica: «Per Romano Prodi e per altri fan della formula della public company, quella della Comit è stata una classica vittoria di Pirro».  A questo punto si ripropone una domanda che Di Pietro fece a Prodi a proposito dei fondi neri dell'Iri: ma lei è fesso o vuole far il fesso?  Certo  è che il professore non è la persona più indicata per salire sul Colle e rappresentare il cambiamento in un periodo di crisi. Egli infatti è il solo uomo politico che negli ultimi 35 anni abbia collezionato con estrema facilità incarichi istituzionali e incarichi manageriali e finanziari.  Come disse ironicamente Francesco Cossiga: «Per quanto riguarda  essere di centro, di destra o di sinistra, una cosa è certa: io non sono mai stato consulente della Goldman Sachs». Tuttavia nel passato dell'uomo che Bersani e Grillo vogliono mandare al Quirinale c'è anche altro da raccontare. Ma forse è meglio rinviarlo alla prossima volta.

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