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Monti non si smentisce: sbaglia sempre i conti

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Dopo aver devastato il bilancio del Paese, i montiani cominciano a pensare che Mario abbia cannato anche col pallottoliere del Parlamento: rischia il flop

Andrea Tempestini
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Anche tra i fedelissimi di Mario Monti qualche dubbio serpeggia. E se il Professore avesse sbagliato i conti? Non tanto quelli del bilancio dello Stato, che continuano a non tornare nonostante gli sforzi dell'ex rettore, ma quelli politici, della sua lista.  Se si fosse montato la testa, lasciandosi convincere da chi come il ministro Riccardi lo spingeva a candidarsi, senza mettere in conto i rischi di una campagna elettorale dura e le difficoltà di una competizione senza esclusione di colpi? Se in pratica andasse incontro a una sonora batosta? Le incertezze hanno preso piede dopo le ultime comparizioni televisive del presidente del Consiglio, da alcuni giudicate spigliate, meno formali e più polemiche con gli avversari, ma dagli esperti ritenute autentici autogol che lo hanno fatto entrare a pieno diritto nel teatrino della politica, togliendogli autorevolezza e consensi. Esporsi alle risse televisive al premier avrebbe fatto perdere l'aplomb da tecnico che nell'ultimo anno gli ha consentito di galleggiare nel mare mosso di una Repubblica dove le maggioranze sono incerte e le decisioni anche.  Da ex rettore,  forte  della carriera scientifica,  Monti ha potuto imporre scelte dolorose come la riforma delle pensioni, anche perché l'Europa e lo spread premevano e lo sostenevano. Ma da leader di una coalizione centrista il Professore non ha più quell'aureola di infallibilità che lo preservava dagli attacchi: è semplicemente uno dei tanti leader in cerca di voti. Per un anno, essendo fresco di nomina, il presidente del Consiglio non ha avuto nulla da farsi perdonare: a differenza di Berlusconi, Bersani, Casini e Fini, nessun errore  politico gravava sul suo passato ed egli ha potuto dunque godere di una condizione di intangibilità unica per chi si trovi alla guida di un governo. Per lui rispondeva solo il curriculum universitario e niente altro: non le scelte sbagliate, non i compagni di viaggio impresentabili. Tuttavia, trascorsi dodici mesi, perduto lo scudo dello spread ed esauritasi la paura di una bancarotta finanziaria dell'Italia, Monti è divenuto un normale uomo politico in cerca di una riconferma e desideroso di conservare la poltrona.  A leggere le misurazioni sulla popolarità redatte pochi mesi fa dai principali istituti di rilevazione, ottenere un bis appariva facile. Secondo i dati il Professore volava nei sondaggi, più di quanto non facessero i suoi ministri. Ma una volta gettata alle spalle l'immagine super partes del tecnico, le cose si sono fatte più complicate. Altro che cinquanta per cento di popolarità come segnalavano fino a settembre le telefonate dei ricercatori. Alla domanda su quanti siano effettivamente disposti a mettere la crocetta sul nome di Monti nel segreto dell'urna, i consensi sono divenuti più rarefatti. Le percentuali superiori al venti per cento si sono trasformate in un miraggio e perfino l'obiettivo di conquistare più del quindici per cento, divenendo il secondo partito o la seconda coalizione presente in Parlamento, rischia di essere una missione impossibile. Anzi, dopo la campagna televisiva del premier, gli italiani disposti a votarlo si sono ridotti, scendendo sotto il 13 per cento. Tutto ciò mentre l'offensiva mediatica condotta da Berlusconi sta dando i primi frutti. Il Cavaliere, da quando è ridisceso nell'arena, ha guadagnato non pochi punti. A differenza del presidente del Consiglio, Silvio infatti non sale ma continua a scendere in politica, con risultati inversamente proporzionali nei consensi. Le ultime rilevazioni lo darebbero intorno al venti e dunque non lontano dal 22 per cento che pare si sia prefisso. Tanto che dalle parti del Pdl si comincia a pensare che, se l'accordo con la Lega verrà raggiunto, l'obiettivo di fermare la gioiosa macchina da guerra di Pier Luigi Bersani potrebbe essere raggiunto.  Il tempo scarseggia, le elezioni sono alle porte, ma se il Cavaliere ancora una volta garantisce la rimonta, superando il venti per cento, la coalizione di centrodestra potrebbe arrivare al 35 per cento. Ai voti del Pdl infatti si unirebbe il sei per cento della Lega, il due di La Russa, Meloni e Crosetto, un altro due di Storace e infine i voti del Grande Sud di Miccichè e dei siciliani. Un'armata che sulla carta parrebbe destinata alla sconfitta, in quanto a Bersani e compagni  viene accreditato il 38 o il 40 per cento. Tuttavia più si avvicina l'ora del voto e più la differenza si fa lieve e con tali percentuali tutto potrebbe divenire possibile, anche un ribaltone. Soprattutto se i voti che Mario Monti sta raccogliendo sono sottratti al centrosinistra. Spaventati dall'accordo con il governatore della Puglia, un po' di elettori bersaniani potrebbero infatti optare per la lista civica del presidente del Consiglio, con il risultato di agevolare  Berlusconi.  Insomma, a meno di due mesi dall'apertura dei seggi, la partita tra sinistra e destra  non pare affatto chiusa come lasciano intendere alcuni e il merito di averla riaperta forse va proprio a Mario Monti, il quale probabilmente ha sbagliato i suoi conti elettorali, ma, inaspettatamente, potrebbe aver fatto tornare quelli del Cavaliere. di Maurizio Belpietro

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