Cerca
Cerca
+

Il piano di Monti: tagliarci gli stipendi

default_image

Il ministro Grilli negli Stati Uniti rivela la strategia: aumentare la produttività delle aziende sfruttando i disoccupati per diminuire i salari. Una guerra tra poveri

Nicoletta Orlandi Posti
  • a
  • a
  • a

di Maurizio Belpietro Sepolta a pagina dodici del Corriere della Sera e seminascosta tra gli articoli affettuosamente preoccupati del futuro politico di Monti e meno affettuosamente del ritorno di Berlusconi, ieri  si poteva leggere una corrispondenza di un certo interesse e di sicuro allarme. La cronaca, firmata da un bravo collega come Federico Fubini, riferiva della visita del ministro dell'Economia a Washington. Vittorio Grilli, nella Capitale a stelle e strisce, ha incontrato venerdì scorso il suo omologo americano, oltre a un gruppo di investitori e osservatori statunitensi. E nel colloquio avuto con signori che muovono centinaia di milioni in poche ore, spostandoli da un mercato all'altro a seconda delle convenienze, il numero uno di via XX Settembre  si è lasciato andare a qualche confidenza, illustrando la strategia del governo Monti per uscire dalla crisi. Riassumo qui, con parole mie, quello che Fubini ha riassunto con le sue. Punto primo: il debito. Se l'Italia non cresce, non c'è verso di ridurre il debito e la spesa per interessi sale. Ora che il Prodotto interno lordo diminuisce invece di aumentare e gli interessi da pagare sono intorno al 5 per cento, il debito pubblico sale quasi per forza d'inerzia. Per invertire la tendenza ci vorrebbe una crescita del Pil in termini nominali del 3 per cento. Non serve che sia reale: basterebbe anche l'uno  per cento cui sommare un due per cento di inflazione. Ciò che conta è che la produzione non vada all'indietro come sta accadendo ora, perché il resto verrebbe da sé. Con una flebile ripresa,  un po' di rincaro dei prezzi e un avanzo primario che oscilla tra il 4-5 per cento al lordo della spesa per interessi, agli stregoni che guidano l'economia riuscirebbe il miracolo di cominciare a diminuire la montagna di debiti accumulati in sessant'anni e passa di Repubblica. Punto secondo:  se  la strategia per rientrare dei 2 mila miliardi di titoli di Stato è piuttosto chiara, resta da capire come si può  far muovere una locomotiva in panne, costringendola a viaggiare almeno ad una velocità di un punto percentuale di Pil all'anno.  E qui viene il bello. Perché nonostante l'Italia negli ultimi tredici anni abbia perso competitività nei confronti della Germania e anche dei Paesi dell'eurozona, il ministro dell'Economia si è detto fiducioso di riuscire nell'impresa. Già, ma dove si trovano i soldi per rimettere in moto il convoglio che sta scivolando all'indietro? Il treno di certo non  riparte da solo, ma ha bisogno di qualcuno che lo spinga. Dunque non restano che due strade: o si trovano risorse aggiuntive da impiegare per la crescita, mettendole a disposizione delle aziende, oppure le aziende devono fare da sé, devono cioè trovare il denaro che manca e destinarlo allo sviluppo.  La prima soluzione è da escludere, perché se finora con la spending review non si è riusciti a rintracciare uno straccio di euro è assai difficile che ci si riesca ora che la situazione si è fatta più critica. In tal caso non rimane che la seconda via, ovvero i risparmi aziendali. Riducendo i costi, in particolare quelli del lavoro, le imprese possono trovare il propellente per far ripartire la locomotiva. Il discorso del ministro in pratica significa che la crisi bisogna saperla sfruttare e, se le aziende vogliono, possono trovare manodopera a basso costo. «Il continuo aumento della disoccupazione», scrive il Corriere, «spinge chi cerca un posto di lavoro ad accettare compensi sempre minori pur di lavorare, ridando un po' di competitività di prezzo alle imprese».  Capita l'antifona? Per Grilli i tre milioni di lavoratori a spasso sono un'opportunità: basta saperli sfruttare, usandoli per far concorrenza a quelli che lo stipendio ce l'hanno e costringendoli ad accettare di lavorare per salari più bassi. Altro che riforma del lavoro e accordo sulla produttività per rilanciare le imprese: la vera riforma la farà la guerra tra poveri che si scatenerà il prossimo anno, quando chi è disoccupato e non ha alcun sussidio si offrirà a prezzi competitivi.  Se per caso qualcuno non avesse capito bene la strategia del governo, Fubini nel suo articolo offre un'ancor più chiara interpretazione del  pensiero economico del ministro, spiegando che «far crescere il Paese del 3 per cento, comprimendo con la disoccupazione i compensi e i costi è un'operazione non facile, come camminare con una gamba in un senso e con l'altra in quello contrario».  Il che la dice lunga sui piani di un esecutivo che, essendo tecnico, non ha certo a cuore gli effetti  delle sue misure sui soggetti  a cui appartengono le gambe:  la sola cosa che conta è mettere in pratica l'esperimento. Chi se ne importa se gli italiani a causa della strana manovra crepano di fame: l'importante è sapere se la teoria funziona.  Si sa mai che, nel caso riesca, ci scappi un premio Nobel per l'economia. E se non va, pazienza. Tanto Grilli può sempre tornare a fare il banchiere e Monti, male che vada, ha sempre a disposizione una cattedra da cui tenere la sua lezione.

Dai blog