La libertà di stampa agli arresti
Sallusti condannato ai domiciliari a casa della Santanchè
di Maurizio Belpietro Alessandro Sallusti non andrà in carcere, ma dovrà vivere recluso per i prossimi quattordici mesi tra le mura di casa propria. O meglio: in quella di Daniela Santanchè, sua compagna di vita. Non è ancora chiaro se da lì potrà uscire per recarsi al lavoro in un orario deciso dal giudice di sorveglianza o se dovrà rimanervi fino ad aver scontato la pena, dirigendo dunque a distanza il Giornale e, nel caso, se ai domiciliari potrà ricevere telefonate e avere quelle relazioni con le fonti che ogni giornalista intrattiene. A due mesi dalla condanna e a uno dalla notifica della sentenza, i lati oscuri del caso Sallusti sono infatti ancora molti, anche perché non capitava da tempo che un direttore finisse dietro le sbarre. L'ultimo, come è noto, fu nel 1954 Giovannino Guareschi, condannato prima per vilipendio al capo dello Stato e poi per diffamazione a mezzo stampa nei confronti dell'allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. Se mi occupo del caso non è però per l'anomalia di un direttore che probabilmente sarà costretto a esercitare il controllo del giornale che dirige lontano dalla sua redazione. Nonostante l'irrazionalità della cosa, i mezzi moderni consentono di fare una riunione con i colleghi anche se si è collegati dal proprio salotto, correggendo dalla camera da letto le pagine prima del visto si stampi. Se ne scrivo non è neppure per dovere di difesa di un collega. So perfettamente che i giornalisti non godono di buona fama e tra le persone detestate sono appena un gradino sotto i politici, con i quali condividono la poco invidiabile accusa di far parte di una casta di privilegiati. No. Intervengo sulla questione che riguarda la diffamazione e le sue pene solo per fare un paio di riflessioni che, forse, presi come eravamo dai guai di Sallusti, temo siano sfuggite al grande pubblico. La prima riguarda il diffamato, cioè la vittima del reato contestato a Sallusti. Non parlo del giudice che si è sentito offeso e lo ha querelato, facendolo condannare. (...) (...) Mi riferisco in astratto alla persona che un articolo di giornale può mettere alla gogna. Ne ha parlato in una sua lettera al Corriere della Sera Francesco Rutelli, uno dei più accesi sostenitori della punizione carceraria per i giornalisti. Secondo l'ex radicale, contemplare la detenzione è un deterrente contro la libertà di diffamare. E per spiegare il suo convincimento Rutelli ricorda i funerali di Enzo Tortora, 25 anni fa in Sant'Ambrogio a Milano. «Tortora volle essere sepolto in compagnia di una copia della Storia della colonna Infame del Manzoni», ha scritto Rutelli, aggiungendo che il presentatore era stato distrutto da molte cause, non ultima l'accettazione iniziale da parte di tanti giornalisti dell'infamia che egli fosse, niente di meno, che un capo camorrista. L'ex sindaco di Roma ed ex tutto nella sua requisitoria contro i cronisti ha dimenticato però un passaggio fondamentale. Tortora non finì in cella per colpa dei giornalisti: a mettercelo, credendo alle fanfaluche dei pentiti, furono i magistrati. I colleghi raccontarono i fatti così come li presentò la pubblica accusa e alcuni (ricordo Enzo Biagi e Vittorio Feltri) dubitarono delle imputazioni, criticando l'impianto dei pm. Certo, forse avrebbero dovuto essere più duri, più determinati nella difesa di Tortora, ma avrebbero rischiato l'incriminazione per diffamazione. Se cito Rutelli e il riferimento a Tortora non è un caso. Spesso, quando i giornalisti finiscono nel mirino, c'è di mezzo un'inchiesta della magistratura. I magistrati accusano, i cronisti riferiscono (attingendo a fonti investigative e talvolta agli stessi pm), le vittime - della diffamazione - querelano. Alla fine chi paga? Ovvio, i giornalisti. I quali saranno anche considerati dei privilegiati, appartenenti alla Casta, ma sono l'anello debole di un sistema. Ricordo che i magistrati del caso Tortora hanno proseguito la loro carriera, ma per Rutelli la colpa è dei giornalisti. Seconda riflessione. Scrivere un fatto non vero o esprimere un'opinione sbagliata è certamente cosa grave, che danneggia il protagonista della falsa notizia o della critica infondata. Ma, come ho spiegato prima, si tratta di un errore. Ci può essere imperizia o negligenza, perfino incapacità del collega, tuttavia in tanti anni di mestiere non ho ravvisato l'intenzione di diffamare. Un giornalista non scrive di proposito una balla, ne va della sua credibilità, e, cosa forse più importante, del suo portafogli: non tutti gli editori pagano le spese legali e, se le pagano, in caso di dolo, hanno la facoltà di rivalersi sul condannato. Se poi il giornale chiude o fallisce - cosa non rara di questi tempi - il rischio di dover rispondere direttamente è ancor più forte. Perché faccio la distinzione fra colpa e dolo per un articolo sbagliato? Perché nel codice penale è difficile ravvisare pene detentive in caso di reato colposo. Se uno si ubriaca e poi alla guida di un'auto uccide una persona, la legge prevede la prigione e pure se un medico non cura un malato e negligentemente gli procura delle lesioni personali, ma siamo nel campo dei danni fisici, addirittura della sopravvivenza. L'omicidio o le lesioni, pur se provocate da un comportamento colposo, sono punite con il carcere, ma la maggior parte degli altri reati colposi non ha rilevanza penale. Se un impiegato sbaglia, mica gli mettono le manette. Un professore che si distrae e lascia che gli alunni sfascino la scuola o ne boccia uno che non lo merita, facendogli danno e rubandogli un anno, non viene messo al gabbio. Un operaio che rompe una macchina e blocca la produzione viene multato o al massimo cacciato, ma di certo non finisce in cella. Si dirà: un operaio, un professore o un impiegato hanno un trattamento al minimo. Ma se si trascurano alcune eccezioni, nella media anche i giornalisti stanno al minimo o poco sopra: se ogni volta devono pagare 50 mila euro finiranno in bancarotta. E poi diciamoci la verità: è più grave scrivere un fatto non vero o parzialmente vero o è peggio sbattere in galera un innocente, magari perché non si è ascoltato un testimone chiave o verificata una prova? Io non ho dubbi. Tuttavia non mi risulta che un magistrato sia mai finito dietro le sbarre per un errore compiuto nell'esercizio della giurisdizione né che abbia pagato di tasca propria. Due pesi e due misure? Insomma, chi fa un mestiere come il mio di errori ne commette tanti: per la fretta di scrivere, per impreparazione professionale e a volte per semplice stupidità. E per questo dovrebbe chiedere scusa senza tirarla troppo per le lunghe. Tuttavia, gli sbagli non sono mai intenzionali, mai mirati a diffamare. Eppure è il giornalista che paga per tutti. Per i magistrati e gli investigatori che gli hanno rifilato la patacca. Per i politici che non vedono l'ora di rifarsi su qualcuno e di vendicarsi degli odiati report. Per banchieri e imprenditori che così possono farsi gli affari propri. E la chiamano libertà di stampa.