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I camerati sbagliano: così Fini diventa martire

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Insultare la terza carica dello Stato non ha reso omaggio al fondatore di Ordine Nuovo. Per censurare il traditore del Msi sarebbe stata meglio l'indifferenza

Andrea Tempestini
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  I lettori sanno che di Fini non abbiamo grande stima, né come leader né come persona.  In politica non ne ha azzeccata una e non fosse stato per Giuseppe Tatarella, il deputato che ispirò la svolta di Fiuggi, sarebbe ancora lì a tener in vita la fiammella del Movimento sociale. In quanto alla persona, con i suoi tradimenti, degli ideali e degli alleati, ha dimostrato di non essere né fedele né leale: un tipo insomma di cui diffidare. Ciò detto, quello che è accaduto ieri ai funerali di Pino Rauti ci induce a difenderlo. Appresa la notizia che il presidente della Camera è stato accolto nella Basilica di San Marco da un coro di insulti e perfino da qualche sputo, non abbiamo né gioito né abbiamo pensato che si fosse meritato la gazzarra. Per quanto non ci piacciano l'uomo e le sue giravolte, Gianfranco Fini rimane la terza carica dello Stato, ovvero un'autorità che merita il rispetto dovuto ai rappresentanti della Nazione. Non stiamo neppure a discutere che i contestatori fossero persone che hanno ossequiato il carro funebre con il saluto romano e con slogan tipo «Boia chi molla», dimostrando dunque di essere forse fedeli a un'idea ma fuori dal tempo. Ciò che ci preme è dire che, per quanto siano criticabili le posizioni e le scelte dell'ex presidente di An, per quanto sia detestabile il voltafaccia compiuto nel corso degli anni, per quanto sia deprecabile il suo tartufismo sul caso dell'appartamento di Montecarlo e dei contatti tra i membri della sua famiglia e un latitante in odore di gioco d'azzardo, un presidente della Camera non si accoglie con gli sputi e le grida.  Certo, la presenza di Gianfranco Fini alle esequie del fondatore di Ordine Nuovo, un politico che alla carriera ha preferito la coerenza, forse poteva apparire una provocazione agli occhi di chi il fascismo non l'ha mai rinnegato,  e probabilmente  lo era. Partecipando al rito funebre in mezzo a un nutrito gruppo di nostalgici, l'uomo che subentrò a Rauti nella guida del Movimento sociale per poi liquidarlo non poteva non sapere sapeva di sfidare i tanti camerati lì convenuti. Anzi: è quasi certo che nelle sue intenzioni  vi fosse proprio il desiderio di sfidare le camicie nere, così da guadagnarsi qualche titolo sui giornali e riuscire ancora una volta ad atteggiarsi a vittima di squadracce intolleranti e violente. Dal giorno del famoso «Che fai, mi cacci?», il presidente della Camera ha cercato in tutti i modi di accreditarsi come martire di Silvio Berlusconi e della stampa di centrodestra, per ottenere la legittimazione a sinistra di cui sentiva il bisogno. E bisogna riconoscere che per un certo periodo sembrava perfino esserci riuscito, ma poi, una volta sfrattato il Cavaliere da Palazzo Chigi, come sta accadendo ad Antonio Di Pietro, è stato rottamato, messo in soffitta come un oggetto non più utile o un vestito passato di moda.  Tuttavia, a prescindere da quali fossero le intenzioni della terza carica dello Stato nel momento in cui ha varcato il portone della Basilica, i camerati che lo hanno accolto al grido di «traditore» e «Badoglio» non hanno reso un buon servizio all'uomo per cui si erano radunati.  Si può non condividere nulla del pensiero politico di Pino Rauti - e noi siamo tra quelli che non possono essere sospettati di aderenza alla linea del vecchio seguace di Julius Evola - ma di certo non si può pensare che il «Gramsci nero» (così qualcuno lo ha definito per via del fatto che spostandosi sempre più a destra fosse finito quasi a sinistra o su posizioni care alla sinistra su disoccupati, diritti e ecologia) fosse un fascista che sognava di far rivivere il fascismo. Come più volte spiegò nell'ultima fase della sua vita, il fascismo era morto e sepolto con Mussolini e parlare di rifondazione non aveva alcun senso. Dunque, consegnarlo alla memoria con gesti e inni, ma soprattutto con insulti contro il presidente della Camera degni di una «squadraccia» nera, come sicuramente verranno definiti i facinorosi dalla stampa progressista, è stato un errore. E anche piuttosto grave. Non si fa rivivere il pensiero di Rauti in questo modo né gli si rende omaggio, ma al contrario lo si liquida come qualcosa di poco compatibile con la democrazia.  Volendo censurare Gianfranco Fini, la sua linea politica e i suoi tradimenti, non lo si doveva accogliere con offese e sputi, ma con l'indifferenza. Cancellarlo dalla memoria, ignorarne le decisioni e i calcoli di piccolo tornaconto politico erano le cose migliori che tanti missini delusi avrebbero potuto fare. Perché non è con un'aggressione che si segnala la propria disapprovazione, ma con il silenzio. Che fa più rumore di tante urla e non consente nessun appiglio per presentarsi all'opinione pubblica come un perseguitato politico. di Maurizio Belpietro  

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