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L'Italia boicotta chi le procura dei soldi

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Ikea ha fatto richiesta per aprire un megastore a Roma che darebbe lavoro a centinaia di persone, ma da 7 anni la nostra burocrazia blocca tutto

Nicoletta Orlandi Posti
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di Maurizio Belpietro Per la prima volta in quasi 25 anni la filiale italiana dell'Ikea, invece di aumentare il fatturato, lo ha diminuito. Perdita del  2,6 per cento, poco meno di 1 miliardo e 600 milioni di ricavi. Vi chiedete perché mi interessa tanto l'andamento delle vendite della casa degli svedesi? Che i mobili per bricoleur vadano meno bene che in passato è normale, data la crisi in cui versa l'economia italiana.  Meno scontato  però è che in uno Stato in cui mese dopo mese aumentano i disoccupati alla stessa Ikea, la quale nonostante il calo di fatturato vorrebbe continuare a investire nel Belpaese, si neghi la possibilità di aprire un nuovo megastore. La notizia del divieto l'ha comunicata l'amministratore delegato dell'azienda di mobili, Lars Petersson, il quale ha rivelato che da sette anni vorrebbe inaugurare un supermercato  nella Capitale, ma ad oggi non c'è riuscito. «Un bellissimo progetto da 115 milioni di investimenti», ha spiegato, «che l'inerzia  burocratica di Comune e Regione impedisce di realizzare». A quanti dipendenti  potrebbe dar lavoro il nuovo magazzino? Non lo so, nell'agenzia da cui ho ricavato la notizia della mancata apertura non è precisato, ma immagino che si tratti di diverse decine,  forse centinaia.  Insomma, mentre le cose vanno male, gli italiani non spendono e il governo non sa più come far quadrare i conti, c'è un'azienda estera che vuole investire una montagna di quattrini e noi le facciamo fare anticamera per sette anni. Il fatto è di quelli catalogabili sotto la voce  «Comportamenti  demenziali e autolesionisti». Purtroppo però la vicenda non è isolata. Basta una rapida ricerca per scoprire che, mentre piangiamo miseria, ci permettiamo atteggiamenti strafottenti tipici di chi non ha bisogno di niente, soprattutto  di aziende estere che diano lavoro e portino investimenti.  Oltre al caso Ikea c'è infatti quello di Decathlon, un'altra catena di negozi, questa volta non per la casa ma per lo sport. Il gruppo, che è di origine francese e ha già diversi magazzini sparsi in Italia, da tempo medita di costruire una nuova sede e nel 2004 aveva messo gli occhi su Brugherio, paese alle porte di Monza. L'idea era di costruire il proprio quartier generale, regalando al paese, per il disturbo che la nuova azienda avrebbe arrecato ai cittadini, 112 mila metri quadrati di parco attrezzato a disposizione degli abitanti, oltre a 250 assunzioni.   Purtroppo ad impedire la realizzazione del progetto si è  messa una serie di ostacoli burocratici, come ad esempio l'obbligo di cambiare il piano generale del territorio, operazione possibile a patto di volerla fare. Si aggiunga a questo che, inspiegabilmente, nel paesotto è sorto un comitato spontaneo contro i 14 mila metri quadri (cioè un decimo di quelli regalati sotto forma di parco) di uffici e magazzino.  Obiettivo degli autoconvocati: impedire che l'investimento disturbi la quiete dei residenti. Alla fine, dopo otto anni di tira e molla, l'azienda si è arresa, decidendo di emigrare: il mega store degli attrezzi e dell'abbigliamento sportivo sorgerà altrove, forse in Italia o forse no. Storia analoga anche quella della British gas, multinazionale inglese che qualche mese fa ha gettato la spugna, rinunciando al progetto di costruire un rigassificatore a Brindisi. Dopo otto anni di paziente attesa di timbri e autorizzazioni del Comune  e della Regione Puglia, il gruppo ha levato le tende, dirottando altrove le centinaia di milioni che era pronto a scucire per la realizzazione dell'impianto di stoccaggio del gas. Risultato? Altre decine se non centinaia di posti di lavoro andati in fumo, anzi mai visti. L'elenco potrebbe continuare: dal Friuli al Piemonte, dalla Calabria alla Toscana, la lista delle occasioni mancate e del lavoro sfumato è lunghissima, perché al di là di quanto raccontano a Roma, questo non è un Paese per imprenditori. Il governo ogni due per tre ci informa di aver varato una norma che liberalizza e incentiva la nascita di nuove imprese, approvando leggi che favoriscono gli investimenti dall'estero. Ma la realtà è un'altra. Invece di ridurre la burocrazia e introdurre regole che attirino le società che intendono produrre da noi, la nostra burocrazia sforna ogni giorno norme che ostacolano e scoraggiano gli imprenditori. Al posto di dare risposte certe in tempi celeri, la pubblica amministrazione ne fornisce di incerte in tempi lenti. Difficile dunque che, stando così le cose, l'occupazione possa crescere.  Se non si agevola l'insediamento di nuove società altro che nuovi posti di lavoro: rischiamo di non conservare neppure quelli vecchi. Di questo passo infatti, invece di attirare nuove aziende, finiremo per esportare gli imprenditori, i quali, stanchi di aspettare che il Paese cambi,  faranno le valigie. Non di cartone ma di Vuitton.

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