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Morte al Colle, e Napolitano scopreil circo mediatico-giudiziario

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Una nuova vittima della giustizia: ora qualcosa dovrà cambiare

Andrea Tempestini
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  Loris D'Ambrosio è morto. Il suo nome probabilmente non dirà quasi nulla alla grande platea dei lettori. Del resto, fino a poche settimane fa nessuno o quasi sapeva della sua esistenza. Neanche noi, che pure passiamo per persone informate dei fatti,  saremmo riusciti a rispondere a una domanda a bruciapelo su di lui, né ci avrebbe aiutato Wikipedia. Eppure Loris D'Ambrosio era un ascoltato consulente di Giorgio Napolitano. Anzi «il» suo consulente per gli affari giuridici e dunque aveva accesso agli affari riservati che riguardavano delicate faccende, in fatto di leggi e tribunali. Un magistrato che al Quirinale era di casa e da poco più di un mese lo era anche sulle prime pagine dei giornali. Il suo nome era spuntato dal nulla nell'inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia. Non che avesse mai avuto a che fare con le cosche, ma la procura di Palermo lo aveva intercettato mentre al telefono sentiva le doglianze di Nicola Mancino, l'ex ministro dell'Interno finito nel mirino di Antonio Ingroia. D'Ambrosio ascoltava, rassicurava, prometteva interessamento, anche da parte dell'inquilino del Colle. In qualche caso si sarebbe dato fare: a quanto si capisce niente di penalmente rilevante, ma il fatto che si occupasse del caso dando la sensazione di solidarizzare con un democristiano di lungo corso come l'ex presidente del Csm aveva acceso i riflettori su di lui. Sulle pagine dei giornali erano finite le sue intercettazioni e quotidiani come il Fatto, giornalisti come Marco Travaglio, si erano particolarmente dedicati alle sue opere. Lo sospettavano di aver brigato per intorbidire le acque, d'essere uno che al servizio o abusando del Quirinale avesse cercato di occultare la Verità. Quella verità impalpabile, che i pm inseguono da anni, a caccia di fantasmi del terzo e quarto livello, di trattative con la mafia e organi deviati delle istituzioni. Un'indagine infinita, che di volta in volta ha messo sul banco degli imputati capi di governo e manovalanza di Cosa nostra, cambiandone a seconda dei teoremi i ruoli. Così i presidenti del Consiglio sono diventati in base alle esigenze d'indagine mandanti delle stragi e degli omicidi, ma poi anche vittime consapevoli della Piovra. Mentre stragisti dichiarati e assassini rei confessi si sono trasformati, a causa del mutato scenario, in collaboratori di giustizia giudicati degni d'attendibilità.  Così D'Ambrosio, da sconosciuto che era, si era guadagnato un posto di rilievo in questo maxi-intrigo da rotocalco, una sottospecie di spy story scritta a puntate dalla procura di Palermo. Lui era lo snodo dei depistaggi, delle false testimonianze. Nessuna accusa precisa, intendiamoci. Ma tante allusioni. Tantissime chiamate in causa, se non in correo. Ora Loris D'Ambrosio è morto. Infarto, dicono i medici. E Giorgio Napolitano, anche lui tirato in ballo (anzi D'Ambrosio veniva messo in mezzo proprio per arrivare al capo dello Stato), si ribella. Dopo anni di sonno, nonostante un tintinnio di manette percorresse la Repubblica, il presidente si è svegliato. E lo ha fatto di soprassalto. Prima ha invocato l'intervento della Corte Costituzionale a tutela delle sue telefonate e della sua privacy, poi, appresa la notizia della scomparsa del suo consigliere giuridico, ha attaccato pm e giornali. Dando comunicazione della morte «dell'infaticabile e lealissimo servitore dello Stato democratico», l'uomo del Colle ha messo in relazione «la perdita gravissima» alla «campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose cui era stato di recente pubblicamente esposto», esprimendo un atroce rammarico. Un atto di accusa chiaro e a testa bassa alla procura e ai suoi giornali.  Ora, noi non diremo che Antonio Ingroia e Travaglio sono responsabili della morte di Loris D'Ambrosio. No, nessuna accusa di omicidio colposo: le motivazioni di un decesso le stabiliscono i medici, non i giornalisti. Tuttavia, non si può non notare che a forza di inseguire i fantasmi qualcuno si è dimenticato di notare quali effetti le inchieste dei pm producono sui vivi. Strappare dall'anonimato un funzionario dello Stato per metterlo dentro un calderone indefinito, in compagnia di una banda di criminali, è uno choc difficile da superare. Un uomo delle istituzioni sullo stesso piano di chi quelle istituzioni le combatteva a suon di bombe. E prima ancora che un giudice si sia pronunciato sulla qualità delle accuse. Prima ancora che una Corte abbia stabilito se ci sono le prove o solo le ombre, come troppe volte negli ultimi vent'anni la procura di Palermo ha fatto. Che sul fronte della giustizia, ma anche su quello dell'informazione, qualcosa sia sfuggito di mano, perdendo il senso delle cose, ma soprattutto la misura delle parole e le ragioni della segretezza delle indagini, pare evidente. E non a noi, che lo andiamo dicendo da anni, ma perfino a Ilda Boccassini, una che non può certo essere considerata nemica dei pm. Commentando la morte di D'Ambrosio, la rossa del tribunale di Milano ha definito il consulente di Napolitano bersaglio di attacchi ingiusti e violenti. Antonio Di Pietro invece ha dichiarato che non si deve strumentalizzare la morte del magistrato. Strumentalizzare forse no, ma cambiare di sicuro sì.  di Maurizio Belpietro  

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