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Banchieri e magistratiaffosseranno la Rai

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Affidare l'azienda alla Tarantola e a Gubitosi,significa non voler cambiare nulla e darla vinta ai lottizzatori

Andrea Tempestini
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Provate a immaginare di dover rilanciare un'azienda di scarpe che ha troppo personale, negli anni ha perso diverse quote di mercato e, di conseguenza, ha i conti che fanno acqua. Alla Bocconi vi insegnerebbero che dovreste cercare sul mercato, magari con l'aiuto di una società di cacciatori di teste, i manager migliori, i quali abbiano maturato con successo una certa esperienza nel settore calzaturiero, ma che al tempo stesso sappiano fare delle economie, tagliando i rami secchi e investendo in quelli che hanno possibilità di crescita. Se al contrario, invece di dirigenti del ramo, voi metteste che ne so, un intellettuale oppure una persona di rigore, molto apprezzata nella società civile ma priva della conoscenza del settore,  è quasi certo che all'Università da cui proviene Mario Monti vi boccerebbero, ma prima della Bocconi vi boccerebbe il mercato, facendo fallire la società affidata alle vostre cure. Vi chiedete perché vi parlo di calzature? Tranquilli, non ho intenzione di fare concorrenza a Diego Della Valle, che nel far le scarpe agli altri è un maestro, come si è visto quando ha dichiarato guerra a Cesare Geronzi. No, se ho fatto l'esempio di un'azienda di mocassini è perché penso che, mentre per un'impresa normale l'azionista intenzionato a rilanciarla va in cerca del meglio, nel caso della Rai, cioè della principale azienda culturale e di spettacolo del Paese, la politica va in cerca dello strano. Sono anni che si discute di dare una dirigenza all'altezza del ruolo pubblico della televisione di Stato. E sono anni che la scelta dei partiti e del governo cade sui personaggi più esterni al mondo della tv che si possano trovare. I requisiti richiesti per venire nominati consiglieri di amministrazione, presidenti o altro non sono quelli richiesti in un'azienda qualsiasi, ovvero di competenza su ciò di cui ci si dovrà occupare, ma, di volta in volta, di autorevolezza in altri settori, rigore morale, obbedienza ai partiti che devono ratificare la nomina. Così abbiamo avuto consigli di amministrazione di cui hanno fatto parte filosofi, scrittori, editori di nicchia, politici di lungo o breve corso, intellettuali che si facevano vanto di guardare poco la tv. Intendiamoci, tranne qualche eccezione, in media brave e colte persone: tutta gente con cui si sarebbe potuto fare un bel seminario su un argomento dotto, ma che della televisione sapevano quasi niente. All'oscuro dei ruffiani, dei parassiti e semplicemente dei truffatori che allignano in qualsiasi grande azienda, figurarsi in una dove girano tanti soldi pubblici, tante raccomandazioni politiche e tante belle donne capaci di far girare la testa anche ai prof. Risultato: grazie all'abitudine di designare docenti e rappresentanti della società civile, la Rai è andata di male in peggio. La voragine di bilancio si è allargata, la qualità dei programmi è precipitata,  l'informazione - se possibile - è diventata ancor più asservita e faziosa. Insomma: tutto il contrario di ciò che dovrebbe essere un servizio pubblico degno del nome. E quanto sta accadendo in queste ore, dopo le nomine di Anna Maria Tarantola e Luigi Gubitosi, non mi fa sperare in niente di buono. Non ce l'ho per niente con i candidati alla presidenza e alla direzione generale. La signora non la conosco e, nonostante alcuni incidenti che le sono occorsi, me ne dicono bene. Luigi Gubitosi, al contrario, lo conosco e so che è un ottimo manager. Ma non è questo il punto: come si fa ad affidare un'azienda di spettacolo e informazione a due persone che di spettacolo e informazione non sanno praticamente nulla? Come si fa a candidare per il consiglio di amministrazione due degnissime persone come Benedetta Tobagi e Gherardo Colombo? La prima da qualche anno partecipa a una trasmissione radiofonica, il secondo tutta la vita ha fatto il magistrato: che c'entrano con la tv? Oh, non venitemi a dire che lei in qualche modo con la comunicazione c'entra e lui ha a che fare con l'informazione tramite la casa editrice di cui è presidente. Ma se aver partecipato a una trasmissione radio o fare l'editore da pensionato dà titolo a entrare nella più grande e complessa azienda culturale del Paese, allora perché non sono candidati tutti i dipendenti Rai o tutti gli uomini di editoria che ci sono in Italia? Se aver fatto per un paio d'anni il presidente onorario di una casa editrice dà diritto a guidare la Rai,  a che cosa si deve candidare quel Gianarturo Ferrari il quale ha diretto tutte le più grandi case editrici d'Italia, concludendo in bellezza la carriera con la scoperta e il lancio di Roberto Saviano? Chiedo al Pd: mi volete spiegare qual è il criterio per essere nominati? Bisogna avere un parente ucciso dai terroristi o dalla mafia?  È questo il requisito principale? So che voi avete l'abitudine di candidare i figli o fratelli degli uccisi, per appropriarvi così del nome del morto e usarlo ai vostri fini, anche quando in vita quel morto lo combatteste (vedi il caso Falcone), ma chiamarsi Tobagi può essere una garanzia di buona e oculata gestione per un'azienda pubblica? È questo il modello di competenza e capacità che proponete a un Paese che grazie alle clientele e alle lottizzazioni è sull'orlo del fallimento? Non era meglio voltare pagina davvero, cercando persone che avessero un curriculum degno del nome e non solo il nome che fa curriculum? In genere quando uno ha bisogno di un manager vero e preparato lo cerca nella concorrenza, puntando su chi ha fatto bene. Perché dunque non prendere da Mediaset o, se si ha l'imbarazzo di mettersi in casa uno che ha lavorato per Berlusconi, non puntare su un suo nemico come Tom Mockridge, l'ex numero uno di Sky Italia? O, ancora, su un manager che con il Cavaliere ha rotto da tempo come Maurizio Carlotti, oggi capo di Antena 3 in Spagna? Mi viene un dubbio: ma non è che, nominando gli incompetenti dal bel cognome, il partito Rai e quello della lottizzazione così si garantiscono il futuro, affinché tutto continui come al solito? Il sospetto è forte. Ma almeno una certezza c'è: non si è mai vista un'azienda in crisi che si affidi a un professore o a un ex magistrato. Per risanarla, anche l'imprenditore più fesso si cerca un manager. A meno che i fessi stiano altrove. di Maurizio Belpietro

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