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Banche piene di euro, non per noi

La Bce presta 210 miliardi ai nostri istituti che li depositano a Francoforte invece di darli alle imprese

Lucia Esposito
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Circa 209 miliardi di euro presi a Francoforte   e tenuti “gelosamente” sotto chiave. Le banche italiane fanno incetta di denaro a basso costo senza rimetterlo sul mercato, allargando i cordoni della borsa per favorire il credito alle imprese. E anche quello delle famiglie, che spesso usano i prestiti per arrivare alla fine del mese. Tuttavia i rubinetti delle banche sono ormai chiusi da un pezzo. Eppure le risorse non mancherebbero. Solo a dicembre, stando ai dati di Bankitalia diffusi ieri, i prestiti della Bce agli istituti del nostro Paese sono cresciuti di 56 miliardi rispetto ai 153 di novembre. Cifra raggiunta grazie ai 116 miliardi della maxi asta triennale all'1%. Soldi, quindi, messi a disposizione degli istituti con facilitazioni, ma  congelati nel gigantesco salvadanaio della stessa Banca centrale europea, che ieri ha toccato un altro record: i cosiddetti depositi overnight sono arrivati a quota 463,6 miliardi, vetta più alta da quando esiste la moneta unica. Numeri, quelli snocciolati ieri dalla Banca d'Italia e dall'Eurotower, che, messi insieme, confermano un sospetto ormai più che fondato: allo sportello c'è una valanga di quattrini che non arriva  a destinazione, cioè all'economia reale. Le banche, insomma, non rischiano. E il frutto della maxi asta Bce non viene spostato sul versante degli impieghi, come auspicato. Il tutto si traduce in partite di giro con conseguenze pericolosissime:  gli imprenditori restano a bocca asciutta e le aziende falliscono. La tendenza è quella del credit crunch. Gli ultimi dati Abi confermano le «restrizioni» delle condizioni nell'offerta di denaro: più garanzie e tassi in salita. E andrà avanti così ancora a lungo. Del resto, pochi giorni fa il direttore generale dell'Assobancaria, Giovanni Sabatini, ha detto che gli effetti dell'operazione confezionata dalla Bce  a dicembre  si vedranno solo tra qualche mese. Una prospettiva drammatica per le imprese, che senza finanziamenti e liquidità non riescono a pagare né fornitori né gli stipendi dei lavoratori. Stremate, perciò, le aziende portano i libri in tribunale e i licenziamenti fioccano. Servirebbe una cura choc. Ma nel pacchetto «Cresci Italia» (o fase 2) allo studio del Governo dei professori  di Mario Monti non c'è traccia - per ora  - di soluzioni al problema del credito alle imprese. Le priorità di palazzo Chigi sembrano altre. Monti sembra un po' più preoccupato di accorciare le code per prendere un taxi o di accelerare la vendita delle aspirine nei supermercati.   Sta di fatto che l'Esecutivo non pare essere intenzionato a  dare una sferzata al mercato creditizio. Senza dimenticare che  chi riuscirà ad ottenere denaro in banca o da altri intermediari, in queste settimane, corre il rischio di pagare interessi da capogiro. Ed è stato lo stesso Monti - nella veste di ministro dell'Economia ad interim - a vistare, poco prima di Natale, il decreto del Tesoro che aggiorna le soglie d'usura per i tassi su tutti i i tipi di finanziamenti. L'ennesimo regalo alle banche. Qualche esempio: per le aperture di credito in conto corrente -vale a dire una delle forme più usate dalle imprese alla stregua della cassa per pagare salari e spese ordinarie    - il tasso soglia è al 17,75% fino a 5mila euro e “cala” al 15,63% oltre i 5mila. Gli scoperti senza affidamento viaggiano al 22%, mentre gli anticipi e gli sconti commerciali (fatture) girano sopra il 12%. E ancora: la soglia per il factoring è all'11,1% e quella per il leasing strumentale al 14,9%. Va male pure alle famiglie: i mutui per la casa arrivano al 9,8% e le carte di credito revolving (acquisti a rate) al 25,1%. E dire che sono soltanto  “soglie” d'usura.    Francesco De Dominicis twitter@DeDominicisF

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