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Fiat, meno tasse e più potere: ecco perché gli Agnelli se ne vanno

Nella nuova sede legale in Olanda il voto degli azionisti stabili vale doppio. E a Londra il fisco è meno esoso che da noi

Matteo Legnani
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È nata Fca, che sta per Fiat Chrysler Automobiles. L'atto di nascita della più importante multinazionale italiana in campo industriale è stato  annunciato ieri dal consiglio d'amministrazione presieduto da John Elkann. Avrà tre teste: Amsterdam, Londra e New York.  La sede sociale in Olanda per sfruttare la legislazione locale che consente alla famiglia Agnelli, proprietaria  del 30% di «pesare» per il  60%. Miracolo delle azioni speciali che spettano ai soci che detengono i titoli da più di tre anni. Un incentivo per il capitalismo familiare che l'Italia neanche si sogna pur essendo le nostre imprese, per la stragrande maggioranza, a guida dinastica.  La sede fiscale in Gran Bretagna per pagare meno tasse e la quotazione a Wall Street per utilizzare le opportunità offerte dal principale listino del mondo. Si tratta dello schema già utilizzato  per i trattori e i camion di Cnh. Niente di nuovo. L'Italia diventa una provincia dell'impero. Neanche la più importante, visto che anche il 2013 è stato negativo. I guadagni vengono da Chrysler e dal Brasile. Fortunatamente sono copiosi visto che l'utile netto, nonostante la fragilità dell'Europa, è salito da 896 milioni a 1,9 miliardi. Un bel salto che, tuttavia, non porterà al dividendo. Azionisti a bocca asciutta per quest'anno. «Bisogna mantenere l'equilibrio finanziario» ha spiegato Marchionne. Evidentemente non gli basta che i debiti siano scesi a 6,6 miliardi dagli 8,3 di settembre. Non vuole correre rischi. Si conferma un prudentissimo uomo di finanza, oltre che un diplomatico di prima classe. Deve ancora dimostrare di essere altrettanto bravo a fabbricare automobili. L'assenza di dividendo, in ogni caso, non è piaciuta al mercato. La quotazione è scesa del 4,1%. Il tetto di otto euro che gli analisti davano ormai per acquisito si allontana. Né le prospettive per il 2014 appaiono particolarmente favorevoli. L'Europa, come ha più volte annunciato Marchionne, resterà ancora molto debole. Anche il Brasile comincia a zoppicare mentre si fa più aggressiva la concorrenza  di Volkswagen.  La Fiat fatica a rintuzzarla vista la cronica mancanza di modelli. A salvare i conti c'è Chrysler, il cui mercato fra Stati Uniti, Canada e Messico vale metà del fatturato (45,8 miliardi su 86) e ha ritmi di crescita del 10%. Certo Maserati fa ancora meglio (+120%) ma il giro d'affari si ferma a 1,6 miliardi. Fatica pure la Ferrari la cui espansione si è fermata al 5%.  E allora avanti con Jeep Cherokee e Grand Cherokee, oppure con il pick up Ram, un veicolo pieno di anni e di gloria.  Complessivamente l'anno scorso la casa americana ha venduto circa 1,9  milioni di vetture. Da sola ha fatto il 40% di tutte le immatricolazioni del gruppo. Per il 2014 annuncia nuove performance anche se meno brillanti delle attese. In ogni caso trecentomila auto aggiuntive. Un sogno per il resto del gruppo. Dagli stabilimenti italiani escono meno di 400 mila modelli. La Spagna, pur senza un produttore nazionale, sta arrivando a quota tre milioni piazzandosi al secondo posto dopo la Germania. Nel corso della conferenza con gli analisti Marchionne ha ripetuto il solito ritornello: a fine aprile sarà presentato il piano industriale basato soprattutto sul rilancio dell'Alfa e l'affermazione di Maserati. La produzione di questi due marchi sarà concentrata in Italia. Un segno di fiducia per stabilimenti e operai. Ma anche un brivido: e se la scommessa non dovesse riuscire? Ipotesi da non scartare considerando che Alfa e Maserati dovranno fare a cazzotti con Bmw, Mercedes e Audi. Se lo sforzo non fosse coronato dal successo sarebbe la fine per gli impianti italiani. Ipotesi da brivido. Ieri sera, comunque, fra gli analisti si vedevano molti musi lunghi. La luna di miele tra il Lingotto e la Borsa ha avuto un'interruzione. Vedremo più avanti. di Nino Sunseri

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