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Ecco i tre regali che Lettaha fatto alle banche

Il decreto alza la fetta di utili riservata agli istituti, rivaluta le loro quote e porterà denaro fresco in cassa grazie al tetto del 3%

Matteo Legnani
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Un triplo vantaggio per le banche e una fregatura secca per le casse pubbliche. La riforma della Banca d'Italia, alla fine, è diventata legge dello Stato. Seppur sofferto, è arrivato, in serata, il via libera definitivo della Camera al decreto legge Imu che, tra altro, conteneva il blitz sulle quote di Bankitalia. Un abbinamento, quello tra le norme relative alla  tassa sulla casa e quelle sul riassetto patrimoniale di via Nazionale, architettato dal governo di Enrico Letta per  blindare il regalo agli istituti di credito. E il ricatto, nonostante l'ostruzionismo del Movimento 5 Stelle cui si è aggiunta la levata di scudi di Fratelli d'Italia, ha avuto l'effetto sperato. C'è voluta la «ghigliottina» di Laura Boldrini (il presidente della Camera ha infatti tagliato gli interventi in aula a Montecitorio, accelerando il voto) per assicurare il cadeau dell'esecutivo alle banche.  Per le finanze dello Stato, come accennato, c'è la beffa. Con la perdita di gettito da 750 milioni di euro. A certificare il buco nei conti pubblici sono stati i tecnici della Camera. Le nuove norme cambiano gli equilibri e per gli istituti sale a 450 milioni la fetta di utili garantita. Si riduce, gioco forza, quella dello Stato che negli ultimi anni ha incassato da via Nazionale rispettivamente 1 miliardo (2009), 511 milioni (2010), 677 milioni (2011) e 1,5 miliardi (2012). La riforma è sostanzialmente retroattiva e perciò vale anche per lo scorso anno. Secondo gli esperti di Montecitorio   «nel bilancio dello Stato per il 2014 risulta ridotto di 750 milioni rispetto alle previsioni per il 2013». Ovviamente la sforbiciata vale anche per il futuro: la dieta per lo Stato è strutturale, cioè permanente. Tutto ciò a fronte di un gettito una tantum (900 milioni) derivante dalla tassa (12%) applicata alla plusvalenza tra valore originario del capitale di Bankitalia (156mila euro) e quello aggiornato col decreto, cioè  7,5 miliardi di euro. I vantaggi per gli istituti, comunque, non si esauriscono coi dividendi. Grazie a quella  montagna di quattrini nuova di zecca, gli istituti rafforzano il loro patrimonio (secondo regalo) in vista delle verifiche europee e, soprattutto, in vista di Basilea3, il nuovo meccanismo che regolerà l'erogazione di prestiti alle imprese. In qualche modo, dunque, si fa pagare alla collettività  - in termini di rinuncia dello Stato a una fetta di dividendo di Bankitalia - le conseguenze dei guasti del sistema bancario. Un pasticcio clamoroso, insomma. E la conferma, nonostante gli strali a orologeria della lobby bancaria contro i presunti inasprimenti fiscali (vale la pena ricordare che la legge di stablità ha tagliato 20 miliardi di tasse sulle svalutazioni), che a palazzo Chigi i banchieri sono di casa.  Il terzo regalo arriverà tra un po'. La riforma di Bankitalia pone un tetto alla partecipazione al capitale: 3%. Limite oggi violato da quasi da tutti gli «azionisti», in particolare IntesaSanpaolo e Unicredit che insieme hanno più del 50% delle quote. Entro tre anni, bisogna scendere al 3% e, al momento della cessione,  gli istituti avranno denaro fresco in cassa. Per Intesa e Unicredit si tratta di circa 4 miliardi, stando ad alcune stime preliminari. Potrà essere la stessa Bankitalia a comprare temporaneamente le azioni extra. Il Tesoro nega l'esistenza di favori, ma la riforma grida vendetta. Di qui le proteste a Montecitorio, dove si è cercato di bloccare il decreto. Certo, il quadro   sarebbe stato altrettanto caotico qualora il «sì» di Montecitorio non fosse arrivato entro la mezzanotte di ieri. Anzi, per certi versi sarebbe stato peggio, specie se si guarda la faccenda dal punto di vista del cittadino. La mancata conversione del provvedimento d'urgenza avrebbe fatto decadere l'intero pacchetto normativo e per i contribuenti sarebbe tornato lo spettro  della seconda rata Imu.  A fronte del triplo regalo alle banche, dunque, il pericolo è stato scongiurato. Il balzello sugli immobili realtivo al 2013 (con l'eccezione della mini Imu pagata il 24 gennaio) è andato in soffitta: il decreto prevede che il mancato gettito della rata Imu di dicembre sia «coperto» dall'aumento dell'Ires a carico degli istituti di credito. Un «sacrificio» che le banche hanno sopportato proprio in cambio dell'operazione Bankitalia. Ecco: anche il Quirinale, nel trovare il necessario collegamento tra le norme sull'Imu e quelle sull'istituto centrale, deve aver guardato tra le pieghe dell'accordo sottobanco tra palazzo Chigi e i banchieri. I quali parlano di riforma «sacrosanta» e toccano le corde del confronto europeo. Eppure, nel Vecchio continente non esiste altra banca centrale in mano ai privati come quella della Penisola. Né, soprattutto, esiste un board indicato dagli istituti. Quelli italiani continueranno  a nominare il consiglio superiore di palazzo Koch. Sia chiaro: non avranno alcuna facoltà di intervenire sull'attività di vigilanza: la questione «controllato azionista del controllore» resta una formalità. Tuttavia, il consiglio superiore è l'organismo che decide sulla distribuzione dell'utile e sulla gestione delle riserve auree oltre che sulle riserve valutarie. E qualche interferenza con la politica, in questo terreno, non è da escludere a priori.      di Francesco De Dominicis twitter@DeDominicisF

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