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Addio all'euro, prove tecniche nell'europarlamento

Nell'europarlamento si riuniscono deputati, economisti e professori che criticano la moneta unica. E i trattati prevedono una via di fuga

Andrea Tempestini
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Euro da morire. Lo si proclama ormai anche all'interno del Parlamento europeo. Sono docenti universitari di economia, come Claudio Borghi Aquilini, Alberto Bagnai e Antonio Maria Rinaldi a mostrare le incongruenze di una moneta unica divenuta elemento di divisone anziché di unione, di povertà invece che di arricchimento. Finché lo dicevano soltanto le massaie alle prese con la diminuzione del potere d'acquisto, l'argomento sembrava piuttosto una polemica a buon mercato. Poi sono arrivati gli euroscettici, ma li si accusava di voler distruggere l'Unione europea. Infine ecco gli europeisti critici, che chiedono di smantellare l'unione monetaria prima che sia troppo tardi. Perché non faccia affondare l'Italia, ma anche per evitare il fallimento agli altri Paesi comunitari. «Dobbiamo prendere atto che è in corso una guerra finanziaria», avverte Magdi Allam, deputato europeo organizzatore della due giorni «Morire per l'euro?». La carneficina riguarda innanzitutto le aziende che «muoiono paradossalmente non perché hanno dei debiti ma perché vantano dei crediti, in un contesto dove il principale debitore insolvente è lo Stato che deve circa 130 miliardi di euro alle imprese».  Anche l'amministrazione pubblica nemica, in realtà, è vittima a sua volta perché costretta a rifarsi sui cittadini, sulle famiglie e l'economia reale da regole finanziarie imposte dall'alto. Perciò, continua Allam, «ferma restando la necessità di abbattere i costi dello Stato, 830 miliardi che sono più della metà del Pil, condizione necessaria per poter ridurre significativamente le tasse, bisogna affrontare seriamente la questione della moneta unica». La via d'uscita è complessa. Chi la evoca rischia di generare il panico. Per procedere razionalmente, occorre una strategia che parte dalla denuncia della «natura strutturale e non congiunturale della crisi», così come «della singolarità dell'euro, unica moneta al mondo ad essere stata emessa in assenza di uno Stato, chiarendo l'anomalia della Banca centrale europea, istituzione privata di diritto pubblico, che per statuto ha come mandato la stabilità monetaria e non lo sviluppo». E questo «esclude la possibilità che possa sia emettere moneta in quantità adeguata a rilanciare lo sviluppo sia di diventare prestatore di ultima istanza per garantire il debito sovrano dello Stato». Sovranità perduta - Anche gli specialisti della materia indicano nel recupero della perduta sovranità monetaria la chiave per uscire dalla crisi. Tanto più che il processo con cui si è compiuta l'unificazione è un mostro giuridico, spiega Rinaldi, docente di Finanza aziendale presso l'Università Gabriele d'Annunzio di Chieti-Pescara. Se da un lato «la democrazia è stata mortificata perché non si è più consentito alle rispettive politiche nazionali, espressioni di deleghe popolari, di poter attivamente intervenire per adeguare e mediare le regole», dall'altro si è consentito «alle regole di modificare i comportamenti dei cittadini stessi, avendo preferito lasciare al voto dei mercati la determinazione della politica economica comune». Altrettanto illegittimo, a suo giudizio, è «il Meccanismo Europeo di Stabilità nato a garanzia dei Paesi membri in temporanea difficoltà di liquidità», ma poi dirottato verso un altro scopo, quello di «vincolare a precisi obblighi capestro chi è costretto a doverne fare uso». Così concepito, «costringe alla rinuncia praticamente totale della sovranità del Paese richiedente con la garanzia dell'asservimento dei propri asset pubblici, assicurando peraltro l'impunità personale ai gestori della tutela».  Il tutto, fra l'altro, è avvenuto in spregio dei trattati e dei regolamenti, tanto da generare «una conflittualità evidente fra quanto approvato dai rispettivi Parlamenti dei Paesi membri che hanno ratificato, dopo dibattiti parlamentari» e «l'applicazione ferrea del limite del 3%» in cui è fissato il limite dell'indebitamento annuale da parte degli Stati. Servono deroghe - Per tornare a ripercorrere la via della civiltà giuridica, Rinaldi indica la strada da seguire: «Lasciare ai rispettivi Paesi la facoltà di poter mutare il proprio status di Paese “senza deroga” a Paese “con deroga”, secondo la definizione prevista dagli articoli 139 e 140 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea di Lisbona e di poter tornare a conseguire in questo modo gli obiettivi di crescita, utilizzando autonomi strumenti di politica economica e monetaria con il pieno supporto delle proprie valute sganciate dagli attuali vincoli economici».  Un divorzio consensuale, insomma. Altrimenti, l'esigenza di dotarsi di strumenti di politica monetaria adeguati, potrà dar vita alla creazione di due euro. Del resto, ricorda Bagnai, «la flessibilità del cambio sarebbe stata il miglior stimolo alle necessarie riforme per i Paesi del Sud e alla opportuna cooperazione con quelli del Nord». Ripristinarle sembra una soluzione inevitabile, «almeno fino a quando l'armonizzazione delle economie reali e il compimento dell'unione politica non rendano naturale e razionale l'adozione di una moneta unica». di Andrea Morigi

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