Intesa-Ubi, Bossi di Cherry Group: "Mps e Banco le prossime prede"
«Era ora... Ci voleva proprio. Certo, dobbiamo aspettare la risposta del consiglio di amministrazione di Ubi e non escludiamo - nonostante le dichiarazioni di Messina - la possibilità di un rilancio di Intesa, ma la fusione tra il primo e il terzo istituto italiano per capitalizzazione ha tutto per rappresentare una svolta nel mondo del credito del nostro Paese». A parlare è Giovanni Bossi, storico amministratore delegato di Banca Ifis e fondatore di Cherry Group, la società che si occupa tra le altre cose di crediti deteriorati e di progetti di intelligenza artificiale legati al mondo bancario. Dottor Bossi, perché quest' operazione è così importante? «Per le dimensioni sicuramente, per il numero di player che coinvolge (ci sono anche Bper e Unipol ndr) e perché potrebbe scatenare un effetto domino». Cioè, altre banche potrebbero fondersi? «Certo, sarebbe normale. Soprattutto nel Nord Italia - l' area più ricca del Paese - l' unione Intesa-Ubi crea un operatore egemone... Ecco, non mi meraviglierei se altri istituti decidessero di rispondere». Quali? «Se guardiamo al mercato ci arrivano degli indizi evidenti. Banco Bpm e Monte dei Paschi guadagnano circa il 5%. Se questo accade vuol dire che qualcuno sta riflettendo sulla possibilità che siano le prossime». Insomma, potremmo essere all' origine di un altro risiko bancario. Ma le imprese e le famiglie cosa ci guadagnano? «Bella domanda. Purtroppo la storia delle fusioni ci ha insegnato che queste operazioni raramente portano a un incremento dei prestiti, il più delle volte generano una loro riduzione. Quando due banche si mettono insieme, troppo spesso gli affidamenti che singolarmente avevano accordato si comprimono anziché aumentare. E questo è un problema serio se pensiamo che negli ultimi 9 anni i finanziamenti concessi a imprese e famiglie produttive sono passati da mille a 700 miliardi, con una flessione del 30%... E questa statistica non considera i mutui concessi alle famiglie per comprare una casa». Ecco, perché questa volta le cose dovrebbero andare diversamente? Siamo di fronte alla solita fusione che punta a ridurre i costi - le famose sinergie - tagliando posti di lavoro? «Molto dipende dalla qualità del management coinvolto». In che senso? «Nel senso che la vera sfida del sistema bancario è quella di trovare in un' epoca di tassi bassi altre fonti di redditività costanti nel tempo. L' utilizzo delle intelligenze artificiali è sicuramente la strada maestra da seguire. Ma per puntare sulle nuove tecnologie servono investimenti che solo le banche di grandi dimensioni possono permettersi. Spingere in questa direzione dipende dalla lungimiranza dei vertici degli istituti che devono indirizzare le risorse umane e organizzative su questa strada...». Per lei il top management dell' operazione Intesa-Ubi ha queste caratteristiche? «Non sta a me dirlo. Mi limito a far notare che se guardiamo a Intesa, nessuno 5-6 anni fa avrebbe scommesso che nel 2020 sarebbe diventata una banca così solida e profittevole». Merito del management? «Sicuramente è anche merito del management, anche se negli ultimi anni abbiamo assistito a una progressiva debancarizzazione del nostro sistema produttivo». Cosa vuol dire? «Che a causa della regolamentazione bancaria per gli istituti di credito è sempre più difficile finanziare l' economia reale. Per erogare credito serve sempre più capitale, ci vogliono più accantonamenti e si richeide maggiore compliance. Ci stiamo facendo fare la politica industriale dalla normativa bancaria e la cosa bella è che a oggi non esistono alternative». Usciamo per un attimo dai massimi sistemi e ragioniamo più "terra terra". Se fosse un' azionista delle banche coinvolte cosa farebbe? Teniamo o vendiamo? «Abbiamo ancora poche informazioni, aspettiamo il cda di Ubi. Di certo possiamo dire che il mercato sta dando una risposta di allineamento ai prezzi indicati dall' offerta di scambio. Il fatto che anche Intesa guadagni non è affato sorprendente, visto che si tratta di un' offerta di sola carta, ma comunque vuol dire che gli azionisti la stanno prendendo bene e sono convinti si tratti di un' operazione profittevole anche nel lungo periodo». di Tobia De Stefano