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Pensioni, Alberto Brambilla mostra le cifre: così il Sud dissangua il Nord

Davide Locano
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«Mi scusi, ma se lei ha una malattia e continua a usare le stesse medicine per curarla senza ottenere mai risultati, poi alla fine cosa fa? Muore o cambia medicina? E l' identico ragionamento vale per l' autonomia. Per anni abbiamo applicato le stesse regole amministrative ma la situazione non è cambiata. Sui buoni motivi dell' autonomia differenziata vorrei fare tre considerazioni...». Il professor Alberto Brambilla è uno dei massimi esperti in Italia della materia pensionistica e negli anni ha analizzato il bilancio previdenziale suddiviso regione per regione. Non per motivi ideologici, ma solo per avere dei dati certi attraverso i quali trovare dei correttivi a una situazione che oggettivamente non funziona. Professore cominciamo con la prima riflessione, cosa dicono questi numeri? «La prima considerazione che emerge dall' ultimo Rapporto di Itinerari Previdenziali sui bilanci regionalizzati è quella di un Paese immobile che nei 36 anni di indagine, dal 1980, primo anno in cui si dispone di dati certi, al 2015, ultimi dati consolidati, mantiene più o meno gli stessi differenziali regionali. Prendiamo ad esempio i versamenti di contributi all' Inps: nel 2015 il 63,54% è stato versato dalle 8 regioni del Nord, il 20% dalle 4 regioni del Centro e il 16,44% dalle 8 regioni del Sud». E le uscite per le prestazioni? «Su quel versante il Nord assorbe il 55,86% del totale, il Centro 19,74% e il Sud con il 24,40% presenta uscite quasi doppie rispetto alle entrate». Negli anni è cambiato qualcosa? «Ecco, 36 anni fa la situazione era più o meno la stessa. Poco è cambiato il che significa che le politiche fin qui applicate hanno fallito e ne occorrono di nuove. Ogni cittadino del Nord versa 3.086 euro di contributi contro i 2.236 del Centro e i soli 1.008 del Sud. Calcolando il saldo pro-capite in rapporto alla popolazione, lo Stato, per il solo sistema pensionistico, trasferisce ad ogni abitante del Sud oltre 1.000 euro l' anno contro i 658 euro del Centro e i 474 del Nord. Il caso estremo è la Calabria dove a fronte di 100 euro incassati per pensioni se ne pagano 36 (erano 26 nel 1980)». Ma con le entrate fiscali va meglio? «Purtroppo no. Se oltre ai contributi previdenziali calcoliamo nei bilanci regionali le entrate fiscali dirette e tutte le spese per welfare (pensioni, assistenza, invalidità e sanità), emerge che il Nord produce un attivo di 27,18 miliardi, il Centro di 3,75 miliardi mentre il Sud assorbe 36,36 miliardi, cioè l' intero attivo di Nord e Centro più circa 1/5 dell' Ires (6 miliardi di euro)». Professore ma negli anni cos' è successo? «Qui veniamo alla seconda considerazione. Come dicevamo il problema vero è che questa situazione non è cambiata negli ultimi 36 anni, mostrando un Paese "immobile" o quasi, con l' aggravante che il Nord, per effetto di molteplici fattori ha ridotto il surplus prodotto». Anche la Lombardia? «La Lombardia nel 1980 per ogni 100 euro di prestazioni statali incassate (pensioni, sanità, assistenza, scuola ecc.) ne pagava quasi 200. Poi ci sono stati invecchiamento della popolazione, moneta unica, aumento delle prestazioni sociali e crisi economica che hanno ridotto il surplus a poco più di 130 euro pagati ogni 100 incassati. Un discorso che vale un po' per tutte le regioni del Nord in particolare per il Piemonte e la Liguria. Si è aggiunto poi il problema dei fondi comunitari che hanno preso la direzione dei nuovi Paesi che hanno Pil pro capite inferiori a quelli delle nostre regioni meridionali». E quindi? «Occorre comprendere che questa situazione è strutturale e se il Sud non si sviluppa né il Nord né l' Ue potranno sopperire alla mancanza di risorse. Il rischio è quindi che l' intero Paese perda sempre più competitività con la grande spada sul capo del debito pubblico che lo potrebbe far collassare». Cosa vuol dire questo? «Il fatto è che in questi ultimi 40 anni si è barattato lo sviluppo del Sud pagando assistenza che ha portato ai problemi attuali. A furia di pagare per il Sud le risorse si esauriscono anche al Nord al quale mancano i soldi per investimenti in sviluppo, occupazione e crescita». Quindi? «Sono numeri dai quali dobbiamo trarre una lezione: se non vogliamo che tra dieci anni oltre al Sud muoia anche il Nord dobbiamo fare qualcosa, bisogna correre ai ripari, perché la medicina che stiamo somministrando non funziona per il Sud ed è deleteria anche per la parte produttiva del Paese». Lei però parla solo con i numeri... «No, parlo con i numeri per poi arrivare alle cose concrete e questa è la terza riflessione. Hanno chiamato il decreto sull' autonomia decreto "spacca Italia" ma il Paese sono anni che è spaccato. Ma le sembra normale che un malato del Sud debba venire a Milano per curarsi? Le sembra giusto che un giovane del Mezzogiorno debba trasferirsi al Nord se vuole trovare università di qualità dove studiare e un posto di lavoro grazie al quale accendere un mutuo e mettere su famiglia? Parliamo di sanità, istruzione, occupazione. Maggiore autonomia farebbe bene anche al Sud. L' Italia oggi è divisa nei fatti, con un federalismo più spinto può ritrovare unità». Ma non pensa che se togliamo risorse a un malato grave come il Mezzogiorno la situazione non possa che peggiorare? «Certo. E infatti insieme all' autonomia va varato un grande piano di rilancio delle infrastrutture del Mezzogiorno. Senza porti dove arrivano le merci, treni ad alta velocità e autostrade degne di questo nome è impossibile che il Meridione possa rilanciarsi. Ma l' autonomia resta fondamentale. Lo dicono i numeri...». Ancora. «Certo. Se tutte le Regioni fossero autosufficienti almeno al 75% l' economia, la produttività e lo sviluppo del Paese sarebbero assai diversi. Insomma, il nostro bilancio sarebbe in attivo e non in deficit di 40 miliardi all' anno. E poi c' è un altro anacronismo inaccettabile...». Quale? «Le Regioni a Statuto Speciale. Qualcuno sa spiegarmi perché ancora oggi la Sicilia o il Trentino debbano trattenere il 100% delle tasse che si pagano in loco, mentre gran parte delle imposte versate dai cittadini lombardi vengono trasferite allo Stato. Lo ripeto viviamo da anni in un sistema che non regge più e se non si interviene con massicce dosi di corretta autonomia rischiamo di perdere sia la parte malata sia quella sana e produttiva del Paese». di Tobia De Stefano

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