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L'unico modo per fare soldi è non aumentare l'Iva

Bechis: quando è stata aumentata nel 2011 l'Erario anziché guadagnare 4 miliardi ne perse 1

Eliana Giusto
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di Franco Bechis @FrancoBechis Quando, nel pieno della tempesta sui mercati finanziari dell'estate 2011, pressato da Bce e Unione europea, il governo di Silvio Berlusconi decise di aumentare l'aliquota ordinaria Iva dal 20 al 21%, la Ragioneria generale dello Stato fece la previsione di maggiori incassi per 4 miliardi di euro. L'aumento di un punto Iva scattò a metà settembre. Nei dodici mesi precedenti l'incasso Iva sugli scambi interni era stato di 100 miliardi e 387 milioni di euro. Nei dodici mesi successivi, con l'Iva al 21%, gli incassi sono stati 99 miliardi e 337 milioni di euro. Invece di 4 miliardi di euro in più, un miliardo di euro in meno. Da allora ad oggi la caduta è stata superiore a 2 miliardi di euro.  Nei soli tre mesi iniziali del 2013 gli incassi dell'Iva sugli scambi interni sono scesi di 882 milioni di euro rispetto al primo trimestre dell'anno precedente. La caduta dunque non si ferma più. Poi ci sarà anche chi dice che è normale che le entrate scendano quando si è in recessione e cala pesantemente il Prodotto interno lordo. Ma nel caso Iva sembra vero l'esatto contrario, e si capisce da un altro dato: quello sull'inflazione. Il mese in cui scattò l'aumento Iva ci fu una fiammata dei prezzi, e l'inflazione salì di 0,6 punti arrivando al 3,4% su base annua. Già il mese successivo scese dello 0,1 e da lì in poi la curva continuò ad andare verso il basso. Cosa significa questo? Che gli italiani si sono protetti da quell'aumento nel modo più semplice e drammatico per i conti pubblici: riducendo i propri acquisti, spendendo meno di prima e così neutralizzando quegli aumenti sul proprio bilancio familiare. Di conseguenza non è il calo del Pil che ha ridotto le entrate dell'Iva sugli scambi interni, nonostante l'aumento dal 20 al 21%. È  stato invece quell'aumento ad avere - insieme alle numerose tasse che da lì in poi si sono susseguite - causato la recessione. È la caduta dei consumi che ha fatto cadere il Pil, messo nei guai le aziende produttrici, fatto perdere posti di lavoro in grande quantità. Ed è naturale che sia così, tanto più se si interviene proprio sull'aliquota ordinaria dell'Iva, che non tocca beni di prima necessità. Paradossalmente se si toccasse l'aliquota Iva sui beni di prima necessità (quella al 4%), l'effetto recessivo sarebbe minore: non ci si priva del pane o del latte anche se rincarano. Ma dei beni voluttuari si può fare a meno se il bilancio familiare non lo consente più. Ed è proprio su quelli che è pesato quell'aumento Iva. È evidente che ripercorrere ora la stessa tragica strada a luglio, portando quell'aliquota Iva dal 21 al 22%, sarebbe un errore gravissimo. E la scusa del deficit pubblico e dei patti con l'Unione europea davvero non vale: sulla carta si mettono 2 miliardi di più di incassi entro fine dicembre, la realtà già dimostra che i consumi verranno depressi e quindi le entrate dello Stato rischiano di ridursi ulteriormente di 5-600 milioni di euro, con effetto negativo anche sul rapporto deficit/Pil. Quell'aumento - dicono le organizzazioni di categoria come Confcommercio e Confesercenti - produrrà nuova crisi, farà chiudere decine di migliaia di esercizi  e piccole aziende commerciali, creerà nuova disoccupazione. Le cifre sono ballerine, è possibile che si esageri un po' per spingere il governo a trovare una soluzione, ma l'effetto negativo è certo. Potrebbe causare fino a mezzo punto di Pil di caduta della ricchezza italiana. Di fronte a questo ci vorrebbe un po' di coraggio, perfino un azzardo nelle regole della contabilità pubblica che da tempo dimostrano di non funzionare affatto. Basta un ragionamento semplice, di quelli terra a terra che ci hanno insegnato le vecchie nonne. Se aumentare l'Iva ottiene l'effetto opposto a quello sperato, allora può essere vero il contrario: abbassare l'aliquota di un punto potrebbe addirittura fare aumentare le entrate sugli scambi interni. Attenzione: non semplicemente evitare l'aumento di un punto (l'effetto sarebbe nullo sui cittadini e sul ciclo economico), ma riportare l'Iva dal 21 al 20%, come per altro fu previsto con l'aumento del 2011 che doveva essere solo temporaneo. Il discorso della vecchia nonna è semplice: se i prezzi dei beni voluttuari iniziano a scendere, dal piccolo scrigno familiare forse qualcosina si può tornare a comprare. Crescerebbero gli incassi Iva invece di diminuire, e già un beneficio ci sarebbe per i conti pubblici così. Resterebbero in piedi aziende che invece chiuderebbero, e dalle loro tasse arriverebbero altre entrate. Conserverebbe  posti di lavoro chi altrimenti li perderebbe, che quindi sarebbe una risorsa per i conti pubblici (grazie alle tasse) e non un costo (per gli ammortizzatori sociali). È così semplice che non si capisce nemmeno cosa Enrico Letta e la sua squadra debbano aspettare per farlo.  

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