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Imu e lavoro, servono 28 miliardi: ecco dove trovare i soldi

Applicare il modello Veneto a tutta Italia vale due punti di Pil: così si trovano i quattrini per la ripresa

Giulio Bucchi
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  di Giuliano Zulin Ci sono 28 miliardi all'anno che vengono buttati dalla pubblica amministrazione. Potrebbero essere utilizzati per cancellare l'Imu sulla prima casa, sui capannoni e sui negozi, per non aumentare l'Iva al 21% (semmai si potrebbe riportare al 20), per pagare la cassa integrazione in deroga ai lavoratori delle piccole e medie imprese in difficoltà, per tagliare le tasse sulla busta paga e per alleggerire l'Irap. Basta? Una trentina di miliardi all'anno sono un paio di punti di Pil. Non saremmo più sotto procedura d'infrazione della Ue per aver un deficit/Pil sopra il 3%. In più il debito pubblico non rappresenterebbe più un problema: con la ripresa e il conseguente aumento delle entrate fiscali, il rosso dello Stato diventerebbe, per incanto, sostenibile. Il tutto senza aiuti da parte della Bce o strigliate della signora Merkel. Domanda: dov'è questo tesoro? Il  ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni, dice che non andremo in default, tuttavia  si fa fatica a trovare 4-5 miliardi in un contenitore da 759 miliardi, che rappresenta il totale della spesa pubblica del 2012... Beh, bisognerebbe avere il coraggio di introdurre, una volta per tutte, i costi standard e impostare una revisione - su base meritocratica - di tutta la macchina statale. Da dove spunta la cifra di 28 miliardi? Uno studio di Unioncamere Veneto del 2009, ma ancora attualissimo, sostiene che estendendo il «modello Veneto» a tutta la pubblica amministrazione italiana si otterrebbero precisamente 27,845 miliardi. Un terzo del costo per interessi sul debito pubblico. Le maggiori economie di spesa sarebbero legate alla gestione del personale (circa 17 miliardi in meno), con una riduzione netta di oltre 500mila unità, facendo così scendere la dimensione del pubblico impiego a poco più di tre milioni. Scarto abissale - Fantapolitica? Ognuno può pensarla come crede, certamente gli attuali numeri del Belpaese non reggono più. Perché se è vero che l'Italia presenta una quota di spesa pubblica decentrata (33,2%) che è di poco inferiore a quella di un Paese di grande tradizione federale come la Germania (38,8%), è altrettanto vero che il decentramento delle entrate è praticamente fermo: nel nostro Paese solo il 18,4% degli introiti fiscali e di altra natura sono imputabili  direttamente alle amministrazioni locali, a fronte del 34,4% della Germania. C'è uno scarto abissale tra competenze di spesa ed entrate proprie delle amministrazioni locali che viene compensato con i trasferimenti da parte dello Stato, assegnati tradizionalmente sulla base del principio della spesa storica. Senza distinguere fra chi spende i soldi bene o chi li butta, perché tanto sa che il rubinetto romano non si chiuderà mai.   È vero che  i governi Berlusconi e Monti, dal 2010 in poi, hanno messo un freno alla spesa delle regioni a statuto ordinario, ma gli sforzi finanziari (4 miliardi   nel 2011,  5,945  nel 2012 e  8,1 nel 2013) sono stati distribuiti, appunto, sulla base dei vecchi trasferimenti statali con criteri di “uniformità”, che  mirano solo all'emersione  a garantire gli obiettivi finanziari prefissati. Federalismo vincente - Con i costi standard, uguali per tutti, si nota  invece che gli Stati federali presentano costi di funzionamento minori (0,564 contro una media europea pari a 1,000) di quelli registrati dai Paesi unitari (0,948). Un'ulteriore conferma relativamente ai vantaggi prodotti da un sistema federale ben rodato è data dal confronto tra l'assetto complessivo della PA tedesca con  quella nostra. L'Italia e il suo centralismo perdono il confronto con la Germania federale in tutti i parametri: abbiamo un peggior rapporto dipendenti/abitanti, un maggior costo medio del lavoro pubblico e una spesa per consumi intermedi procapite più elevata. Il Veneto si avvicina agli standard tedeschi, eppure a Roma preferiscono non vedere gli sprechi. Fuori dal mondo - Vogliamo ricordare qualche esempio? Partiamo dalle pensione (cosiddette) di invalidità. Per effetto del trasferimento di piene competenze in materia di assistenza sociale (in base al Titolo V) il numero degli invalidi civili è quasi di colpo passato dal 3,3% al 4,7% della popolazione. La spesa corrente è quasi conseguentemente passata da 6 a 16 miliardi di euro. Cos'è? C'è stata un'epidemia che noi non sapevamo? Alla voce “anomalie della sanità”  - si legge in una  relazione del 2010 del Copaff, l'ex  Commissione   paritetica per l'attuazione del federalismo fiscale - si citano poi  alcune pazzie nell'acquisto di attrezzature. Ad esempio la stessa Tac a 64 slice, costa 1.027 euro in Emilia Romagna, 1.397 euro in Lazio, con una differenza di 370 euro, pari al 36%. Per quanto concerne i dispositivi medici di uso frequente, ad esempio una siringa da 5 mm in Sicilia costa 0,05 euro contro 0,03 euro in Toscana. Quasi il doppio. Ci sono poi ospedali dove i soli costi del personale superano del doppio del valore del servizio prodotto a favore dei cittadini. La garza non sterile può costare dai 3,29 ai 4,65 euro al chilo. E pensare che  «la sola possibilità di gestire a livello locale una maggiore quantità di risorse  - sottolinea Unioncamere Veneto - avrebbe poi un “effetto volano” sul Pil procapite, che potrebbe così crescere del 9,2%. Se gli italiani, da un paio d'anni, hanno iniziato la dieta della spesa, perché non lo fa lo Stato?  

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