Monti si loda per lo spreadma anche ora non ha meriti
Il prof festeggia su Twitter per il calo del differenziale tra Btp e Bund. In realtà la discesa è frutto dell'accordo negli Usa sul fiscal cliff
di Martino Cervo Magari non sarà un «inganno», come lo chiama Silvio Berlusconi, ma non c'è un argomento come lo spread per misurare il differenziale tra una dose minima di ragionevolezza e il tono medio della campagna elettorale in cui stiamo entrando. Si è cominciato male da subito, dopo la caduta del governo già spappolato del Cavaliere (novembre 2011), con frotte pidielline entusiaste di un differenziale coi titoli tedeschi che, nelle concitate settimane di fine anno, mica scendeva come sperava l'ex opposizione. La quale doveva prendere atto del fatto che no, a differenza di quanto diceva Rocco Buttiglione, le sole dimissioni di Berlusconi non «valevano 300 punti di spread». Poi tutto un balletto sfocato, con quel numerino che di colpo diventava estraneo alla politica oppure il suo perfetto termometro, a seconda di ciò che conveniva e malgrado la logica. Draghi interveniva facendo scendere il valore in piena estate? Ecco, è la prova che Silvio è stato travolto dall'ingiustizia, spiegavano i berlusconiani riluttanti nell'appoggio al Professore. No, è la testimonianza della ritrovata centralità dell'Italia con Monti, ribattevano i suoi più convinti sostenitori. Quando poi il Cavaliere ha di fatto annunciato la propria ri-discesa in campo (8 dicembre), un sensibile ma non drammatico aumento di qualche punto di spread (poi riassorbito il giorno successivo) causò allarmismi al limite dell'incredibile (largamente ripresi per esempio a Ballarò), secondo i quali Berlusconi stava facendo aumentare istantaneamente le rate dei mutui con cui molti italiani erano e solo alle prese. Ha continuato sulla falsariga lo stesso presidente del Consiglio, sminuendo il peso delle decisioni del presidente della Bce, e iniziando proprio con lo spread la pagina web di palazzo Chigi dalla quale ha stilato un bilancio dell'attività di governo molto simile a un programma da campagna elettorale. Ieri è stata un'altra giornata surreale giostrata attorno al numerino su cui da un anno e mezzo misuriamo il senso del nostro Paese nel mondo. Sulla scia dell'accordicchio raggiunto in America per rinviare il «fiscal cliff», infatti, le Borse europee sono schizzate verso l'alto, e lo spread tra il rendimento dei Bund tedeschi e quelli dei Paesi eurodeboli (Italia e Spagna) si è nettamente ridotto fin dai primi minuti dall'apertura dei mercati. Anche a un osservatore distratto e poco avvezzo a decrittare diagrammi finanziari appariva evidente il legame tra la frenata americana a pochi centimetri dal baratro fiscale e la reazione positiva dei mercati di mezzo mondo. Eppure è ricominciato il balletto. A condurre le danze il presidente del Consiglio dimissionario, aiutato da incredibili dispacci d'agenzia che sottolineavano come il differenziale avesse toccato «quota Monti», cioè il valore di 287 punti che, poche settimana fa, il Professore aveva indicato come soglia psicologica corrispondente alla metà del livello record del 9 novembre 2011, giorno clou della tempesta finanziaria e della nomina dello stesso premier a senatore a vita (allora il differenziale toccò i 575 punti base, con un insostenibile tasso del 7,48%). «Oggi lo spread tra BTP e Bund tedeschi ha finalmente toccato i 287 punti», cinguettava lo staff del Professore nel primo pomeriggio, e a stretto giro l'ex ministro Renato Brunetta attaccava: «E pensare che sul grande imbroglio degli spread, misuratore della credibilità del nostro Paese, qualcuno è diventato senatore a vita, presidente del Consiglio, si è fatto votare più di 50 fiducie e adesso pure si candida per vincere le elezioni». E giù, ad accapigliarsi sui meriti di Monti e le truffe ai danni di Berlusconi, in un disprezzo di memoria e ragione che porta Pdl (e Pd) a «dimenticare» di avere votato appunto le 50 fiducie al governo, e il presidente del Consiglio ad accentuare una lettura del tutto domestica dell'andamento di un differenziale che, giusto o sbagliato che sia, è legato all'andamento dell'economia globale e alla percezione di rischio ma è completamente sconnesso dalle nostre polemicuzze domestiche. La recente esperienza dovrebbe aver tolto gli ultimi dubbi in merito: nel momento di massima confusione politica a meno di due mesi dal voto lo spread è a livelli distanti dalle soglie di pericolo (per quanto comunque alto). Ma ieri la giornata è stata quasi perfetta per mostrare l'inconsistenza dell'assunto tra saliscendi dello spread e campagna elettorale. Il valore italiano si è assestato a quota 283 punti, la Borsa ha sfiorato un rialzo del 4% (+3,81%). Madrid ha chiuso a +3,19%, e il differenziale tra Bonos e Bund è sceso a quota 361, cedendo oltre venti punti. Parigi? +2,55%. Londra e Francoforte hanno chiuso con rialzi sopra il 2%. Insomma, semplificando allo stremo, l'intesa traballante con cui l'America ha aumentato le tasse e rinviato un massacrante dibattito sui dolorosi tagli alla spesa (che dovrà effettuare di qui a due mesi) è servita a evitare una matematica recessione che avrebbe avuto conseguenze mondiali gravi, e i mercati hanno tirato un sospiro di sollievo in tutto il mondo e in particolare in Europa, contando sul fatto che una ripresa Usa possa essere agganciata un po' da tutti. Non c'entrano Monti, Berlusconi, Bersani. La discesa dello spread è inequivocabilmente una buona notizia per tutti. E, per carità, una campagna elettorale è una campagna elettorale, ed è quasi normale che si accentui ogni fatto per tirarlo dalla propria parte, o per gettarlo contro l'avversario. Un premier che esulta rivendicandone neppure troppo implicitamente il merito, però, è sicuro di contribuire alla «moderazione dei toni» di cui si è detto alfiere?