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La tagliola fiscale del governo Monti: un'azienda su 3 non può incassare l'Iva

Le imprese in perdita sono escluse dalle compensazioni e dai rimborsi da parte del fisco. Così lo Stato potrebbe bloccare fino a 4 miliardi

Giulio Bucchi
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di Francesco De Dominicis Qualcuno, usando un linguaggio decisamente non tecnico, potrebbe dire «cornute e mazziate». Rubiamo un'espressione al dialetto napoletano che rende bene l'idea della doppia stangata a cui stanno andando incontro   le imprese italiane: una  su tre, stando a un recente studio della Banca d'Italia, chiuderà il 2012 con il bilancio in rosso fisso. E già questa previsione, qualora si rivelasse fondata, potrebbe bastare, da sola, per dare una bastonata all'economia del nostro Paese. Attenzione, però: non è finita qui. A metterci il carico da 90, infatti, c'è sempre il fisco. Stavolta non è il caso di puntare il dito contro il Governo «tutto tasse» di Mario Monti.  Perché la tagliola tributaria che potrebbe far morire il 30% delle aziende  è nascosta nella manovra sui conti pubblici varata a Ferragosto 2011. A palazzo Chigi c'era Silvio Berlusconi e al ministero dell'Economia, Giulio Tremonti.  La questione, riferita ieri sul Sole24Ore, riguarda l'Iva e l'Irap. Secondo quelle norme targate Berlusconi-Tremonti, il deficit di bilancio esclude categoricamente le compensazioni e i rimborsi da parte dell'amministrazione finanziaria. E poi ti penalizza con l'aliquota Irap maggiorata (38%). Il fisco prende in considerazione l'ultimo triennio: bastano un paio di esercizi in perdita e lo Stato picchia duro sia con l'azzeramento delle «partite di giro» in relazione all'imposta sul valore aggiunto sia con l'inasprimento dell'imposta regionale sulle attività produttive. La norma della manovra di Ferragosto puntava ad assimilare le società in perdita su un triennio a quelle di comodo. L'obiettivo del Governo, quindi, era colpire probabili tentativi di elusione fiscale. Di qui l'idea di scovare «scatole societarie» create ad hoc per aggirare adempimenti e regole tributarie. Sulla carta esiste una via d'uscita: l'interpello. Una procedura di dialogo tra i contribuenti e l'agenzia delle Entrate, con la quale l'azienda dovrebbe dimostrare che la perdita non è costruita a tavolino solo per fini fiscali, cioè per pagare meno tasse. Tuttavia, sembra difficile, secondo gli addetti ai lavori, che l'amministrazione finanziaria possa rispondere positivamente, visto che dovrebbe farsi carico di stabilire se il rosso contabile è, appunto, artificiale. Un altro paio di opzioni per evitare la tagliola (verificarsi di un motivo di esclusione prevista dalla legge o causa di disapplicazione automatica del giro di vite) non sono facilmente percorribili.  Insomma, i rischi - per le imprese che hanno alle spalle un triennio traballante - sono enormi. Peraltro, tra la prima del recessione del 2009 e il nuovo collasso dell'economia del 2012, è probabile che molte aziende abbiano messo in fila esercizi tutt'altro che positivi. E la prospettiva è drammatica: potrebbero chiudere l'anno con le ossa rotte e trovare subito dopo lo Stato pronto a dare il colpo di grazia. La questione vale diversi miliardi di euro. Solo nel caso dei rimborsi Iva la torta  arriva fino a 10-12 miliardi  l'anno. Calcolatrice alla mano significa che la stretta può bloccare fino a 4 miliardi nelle casse dello Stato. L'ennesimo scippo a danno delle imprese. Che aspettano ancora di incassare quei 95 miliardi di crediti su cui sta calando il silenzio. twitter@DeDominicisF  

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