Vi racconto il mondo parallelo del pm Ingroia e il teorema sulla toga dei teoremi
Il magistrato indaga sulla trattativa Stato-mafia. Tutta da dimostrare e risalente a vent'anni fa
La teoria dei mondi paralleli trova ulteriore conferma nella differenza tra il mondo raccontato dai giornali e il mondo (parallelo) raccontato ogni giorno da Il Fatto Quotidiano, che da settimane scrive e titola come se il Paese si macerasse attorno all'inafferrabile trattativa Stato-Mafia risalente a vent'anni fa. Ribattere punto su punto, carte alla mano, equivarrebbe a riempire mezzo giornale (questo) e virtualmente ad affrontare il problema delle malattie mentali facendosi rinchiudere a nostra volta in un manicomio. Ecco perché ci si limiterà, in punta di piedi, a qualche spigolatura. 1) Si avvicina il 19 luglio - ventesimo anniversario della Strage di via D'Amelio - e c'è da prepararsi a una slavina di retorica semplicemente spaventosa, accompagnata da una gragnuola di accuse lanciate genericamente contro lo stesso «Stato» che cercherà di celebrare Paolo Borsellino. La tesi è nota: il giudice fu ucciso perché era ritenuto di ostacolo a una «trattativa» tra Stato e Mafia che non si capisce se ci sia stata né chi l'avrebbe precisamente condotta. IL CORPO DEL BARATTO Il corpo del baratto sarebbe stato l'abolizione del carcere duro (41bis) in un quadro totalmente illogico: la trattativa (una delle tante, cioè) risalirebbe infatti al giugno 1992, quando il 41bis neppure esisteva: anche perché fu varato non prima, ma dopo la strage che uccise Paolo Borsellino, a fine luglio. La morte del giudice, più che fare da ostacolo all'abrogazione di un provvedimento neppure varato, in pratica ne causò l'introduzione. Non solo. Due testimonianze (tra altre) spiegano che la volontà della mafia di trucidare Borsellino fu assolutamente precedente a qualsivoglia trattativa: e ben lo spiegano due interrogatori regolarmente verbalizzati (D'Anna e La Marca, anni 1998 e 2012, processi Borsellino ter e Mori-Subranni) in cui si racconta che l'attentato era pianificato da tempo e che Borsellino lo sapeva benissimo. Ma i vari segugi di procura, queste carte, seguitano a ignorarle. 2) È ormai assodato che il pm Antonio Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo e auto-intestatario della battaglia meta-giudiziaria sulla trattativa (che non è un reato, ma uno «sfondo» storico-politico) conduce una campagna personale che lo sta portando a ridisegnare una nuova figura di magistrato militante e decisamente distante dal riserbo e dalla circospezione che in Occidente riguarda in genere i giudici e i togati: Ingroia - l'ha ammesso lui - porta avanti una strategia di comunicazione che lo porta a mettere in secondo piano gli scranni di regola riservati alla sua categoria (convegni e dibattiti, riviste, queste cose) e a mettere in primo piano ciò che può far titolo sui giornali, suo dichiarato obiettivo: dunque comparsate televisive, interventi sul blog di Grillo o di chicchessia, fiumi di interviste eccetera. Ingroia ha dissentito rumorosamente anche quando censure negative furono mosse dal Csm per la sua partecipazione al congresso dei Comunisti italiani: la sua posizione è inflessibile e il suo unico richiamo è alla Costituzione. Domenica, per dire, lo stesso Ingroia è intervenuto alla Festa de l'Unità, ha rilasciato un'intervista a Tgcom24, poi alla Zanzara su Radio24 e poi a Top Secret di Mediaset, mentre in libreria ci sono tre volumi col suo nome in copertina. Va aggiunto, perché non è poco, che Ingroia ha a sua disposizione un intero quotidiano - Il Fatto, appunto - che sostiene ogni sua tesi con uno zelo che sfiora l'adorazione messianica. Ci si limiti a registrarlo. 3) Il quadro della «trattativa» è ormai così demenzialmente confuso (le trattative ipotizzate sono ormai sei o sette, e spuntano tra le righe di almeno cinque processi diversi) che si perdono di vista dei fatti fondamentali. Il primo è ormai noto: il reato di trattativa non esiste e quello ipotizzato da Antonio Ingroia è «violenza o minaccia nei confronti di un corpo politico amministrativo ai fini di condizionarne l'esercizio», imputazione oggettivamente vaga in un quadro in cui tutto lo è. Il secondo fatto dimenticato è che i processi dovrebbero servire ad accertare i reati, non a fabbricarli: le imputazioni mosse agli ex ministri Giovanni Conso e Nicola Mancino, per esempio, fanno capo a presunte false testimonianze riscontrate nel corso dei processi stessi. Ma è il terzo fatto il più eclatante, per quanto sotto gli occhi di tutti: se le varie antimafie perpetuano processi evanescenti su scenari risalenti vent'anni fa, indirettamente, è anche per non ammettere che la battaglia contro la mafia è stata sostanzialmente vinta. BATTAGLIA VINTA La struttura gerarchico-militare è stata decapitata, i capi-latitanti sono in galera, i sottoposti pure, non si contano killer ed estorsori e picciotti e prestanome e palazzinari pure incarcerati, i sequestri di armi e droga e ingenti patrimoni ormai non si contano, le bombe e le stragi e gli omicidi seriali non ci sono più, la presa sul territorio è scomparsa o allentatissima, i traffici internazionali sono interrotti o in mano alla 'ndrangheta. Ovviamente persistono i piccoli clan nonché una criminalità organizzata più generica, dedita al riciclaggio, alla finanza, agli appalti «legali» soprattutto nella sanità: ma non è più un'emergenza territoriale e un terrore quotidiano. Va combattuta - come si fa in tutto il mondo - ma non è un caso che che mafiologi e dintorni, oggi, si concentrino soltanto sul passato, sulla paleontologia giudiziaria, sulla rielaborazione infinita e cervellotica di fatti ventennali. Qualsivoglia trattativa, nei famigerati 1992-93-94, sarebbe perciò stata il viatico di un accordo con la mafia che presupponeva una sua progressiva estinzione: difficile da credere. E infatti, soprattutto di questi tempi e nella situazione che sappiamo, è una realtà parallela che seguita ad esistere in un mondo parallelo. E non molto rilevante, se è permesso dirlo. di Filippo Facci