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Il vero spread è al supermarket

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Monti e i suoi professori non riescono a capire che molti italiani sono allo stremo: anziché preoccuparsi solo dei bund tedeschi dovrebbero tenere sotto controllo il prezzo del pane. E invece ci stritolano di tasse

Nicoletta Orlandi Posti
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di Maurizio Belpietro Chi sta al governo dovrebbe essere costretto a passare qualche ora alla settimana dentro un supermercato o, meglio ancora, in un mercato rionale. Così forse si renderebbe conto di quali siano le ricadute delle sue decisioni sulla vita della gente comune. Non c'è infatti niente di meglio che far la fila alla cassa o al banco della carne per capire gli umori della gente, la sofferenza, le difficoltà e anche le piccole e grandi speculazioni di cui gli italiani sono vittime. Altro che spread, euribor, fiscal compact e altre parole che sono entrate a far parte in pochi mesi del nostro linguaggio. Se si vogliono misurare la temperatura dell'economia reale e l'andamento dei mercati finanziari è meglio dare una controllatina ai prezzi esposti sul bancone, gli unici che pesano sui portafogli del 99 per cento dei consumatori.  E a questo proposito un'occhiata a quanto costano gli ossi non sarebbe male. Non sto scherzando. In vita mia non ne ho mai messi nel carrello, ma ho scoperto non senza stupore che c'è chi li vende. Domenica infatti un pensionato sulla settantina mi si è avvicinato e mi ha mostrato un vassoio di polistirolo impacchettato ed etichettato. Prezzo: un euro e venti. «Si rende conto di quanto li fanno pagare?», mi ha domandato, mostrandomi un osso. Non ho avuto il coraggio di chiedergli se fosse per il cane o per il bollito, ma ho pensato che un euro e venti, tradotti, corrispondevano a  circa 2.400 lire. «Prendo 600 euro di pensione», ha continuato il mio occasionale amico. «Se non arrotondassi facendo qualche lavoretto, come potrei farcela?». Già, e poi uno si domanda perché esiste il nero, gli artigiani non rilasciano la fattura e una parte del prodotto interno lordo ufficialmente non esiste. La risposta è semplice. C'è un pezzo di Paese che fa il furbo e guadagna senza rilasciare gli scontrini e le fatture, arricchendosi sulla pelle degli italiani. Ma esiste un altro pezzo di Paese che se pagasse tutto, se versasse tutte le tasse e tutti i contributi, morirebbe di fame. Piccole imprese o anche semplici pensionati che si arrabattano sarebbero costretti a chiudere bottega, perché lo Stato da loro vuole troppo. E a quanto pare non sono il solo a pensarla così, se anche un giudice ha mandato assolto un imprenditore che non aveva pagato l'Iva. Il mancato versamento è stato giudicato una misura necessaria per garantirsi la sopravvivenza. Come Libero ha spesso sostenuto, di troppe tasse si può morire e adesso c'è perfino una sentenza che lo riconosce. Tuttavia, tornando al pensionato incontrato al supermercato, oltre al peso delle imposte che spinge tante persone ad arrotondare lontano dagli occhi del fisco, esiste anche un'altra questione ed è quella dei prezzi. Dalla benzina agli alimenti, nessuno pare preoccuparsi se i listini aumentano. Ministri e banchieri sembrano guardare solo allo spread, come se lo spread fosse un cibo di cui nutrirsi. In realtà, più che al differenziale tra i tassi dei nostri titoli di Stato e quelli tedeschi, dovremmo badare all'inflazione, ovvero alla corsa dei prezzi. Perché, nonostante il crollo dei consumi, l'inflazione non scende? Eppure le leggi economiche sono semplici: se non c'è richiesta il valore dell'offerta diminuisce; al contrario, se ci sono molti acquirenti, il valore dell'offerta sale. Ma da noi non è così, perché chi offre tende a speculare, approfittando della mancanza di controlli. Così, i prezzi alla pompa salgono e gli ossi arrivano a costare anche un euro e venti. Mi confida uno dei più importanti economisti italiani: «Fossi Monti, più che del differenziale con i Bund, io mi preoccuperei del differenziale dei prezzi italiani con quelli degli altri Paesi». È lì che si consuma la ricchezza. O, meglio, che qualcuno si prende la ricchezza nostra e dei pensionati.

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