Il vizio di giocare a nascondino col terrorismo
Sottovalutare le nuove Br è come mettere in dubbio la verità sull'omicidio del commissario ucciso da Lotta Continua
Qualche giorno fa ho partecipato a una trasmissione radiofonica dedicata a Luigi Calabresi, il commissario assassinato il 17 maggio di quarant'anni fa da un commando di Lotta Continua. Non so perché la Rai abbia deciso di rievocare una vicenda sepolta nel tempo, se per la ricorrenza o perché dopo il ferimento del dirigente dell'Ansaldo nucleare il tema del terrorismo di matrice politica è tornato d'attualità. Sta di fatto che, introducendo l'argomento, il conduttore ha tenuto a precisare che l'omicidio Calabresi è ancora una delle tante faccende oscure della nostra storia patria, quasi che ci fossero ancora dubbi sugli esecutori e i mandanti dell'omicidio. In realtà, il delitto del commissario della questura di Milano non ha niente di misterioso: da anni si sa tutto, o quasi. Il nome di chi premette il grilletto è noto, quello di chi guidò l'auto e fece da palo pure. Si sa anche che a decidere di far fuori il poliziotto fu lo stato maggiore di Lotta Continua, una delle formazioni più estreme della sinistra extraparlamentare. Per questo sono stati condannati Ovidio Bompressi (il killer), Leonardo Marino (l'autista), Giorgio Pietrostefani (il capo del servizio d'ordine di Lotta continua) e Adriano Sofri (il capo supremo di Lc). Alla sentenza sono sfuggiti i comprimari: chi diede copertura a Milano al commando venuto da Marina di Massa e qualche dirigente del gruppuscolo che sapeva dell'agguato e non solo non mosse un dito, ma probabilmente approvò. Nella sostanza, il gruppo di fuoco e i mandanti sono stati identificati e condannati, anche se di anni dietro le sbarre ne hanno trascorsi pochini. Alla mia ricostruzione dei fatti, sostenuta per la verità anche dal collega Massimo Fini che con me partecipava alla trasmissione, il conduttore ha allora opposto una domanda che suonava più o meno così: se tutto è noto, perché in tanti continuano a dubitare della verità giudiziaria? La risposta è semplice. Molti capi e capetti di Lotta Continua e della sinistra contestatrice, dopo aver messo in soffitta la bandiera della rivoluzione, hanno fatto carriera e sono approdati nelle redazioni dei giornali e delle case editrici. Così, essendo conosciuti e influenti, quando i carabinieri arrestarono Sofri e compagni si diedero da fare per tirarli fuori dal carcere, proclamandone l'innocenza. Dal 1988 ad oggi hanno tentato in ogni modo di demolire l'inchiesta, alimentando la teoria del complotto prima e dell'errore giudiziario poi, ma gli elementi raccolti erano tali da non lasciare dubbi ai giudici. Innanzi tutto perché a raccontare come fu pianificato e portato a termine l'assassinio fu uno degli esecutori, ovvero quel Leonardo Marino che guidò l'auto usata per l'agguato, il quale, a distanza di anni, colto dal rimorso di coscienza confessò tutto, rischiando il carcere. I riscontri raccolti dagli investigatori furono numerosi, a cominciare dalla pistola con cui fu ucciso Calabresi, rubata in un'armeria mesi prima, per finire ad alcuni dettagli della macchina che solo chi l'aveva guidata avrebbe potuto conoscere. Ciò nonostante il processo, una volta giunto a sentenza definitiva con una condanna, fu riaperto su richiesta degli avvocati difensori e della stampa democratica. E, caso più unico che raro, non solo si rifece il processo, evento di per sé già straordinario in quanto negli ultimi cinquant'anni sarà accaduto una dozzina di volte, ma addirittura il procedimento non fu incardinato nella sua sede naturale, vale a dire Milano, ma lo si spostò a Venezia, quasi che nel capoluogo lombardo vi fosse una prevenzione nei confronti degli imputati. Il tribunale della Laguna non fece però che confermare quanto già si sapeva e cioè che a compiere il delitto era stato il braccio armato di Lotta continua. Nel frattempo però uno degli imputati, Pietrostefani, una volta scarcerato era diventato uccel di bosco in Francia; un altro, Bompressi, rifiutava il cibo in carcere e per questo fu prima liberato e poi graziato, mentre il terzo, Marino, quello che aveva cantato, fu graziato dalla prescrizione. Il solo che rimase dentro qualche anno per poi essere messo fuori a causa delle condizioni di salute fu Adriano Sofri il quale, in cambio della detenzione, fu ripagato con collaborazioni sulle principali testate italiane. A questo punto, qualche lettore si chiederà perché, con tutto quel che sta succedendo ai nostri soldi, rievoco una storia vecchia di quarant'anni. Innanzi tutto perché, ricorrendo domani l'anniversario di quello che io ritengo essere l'atto costitutivo dei movimenti armati contro lo Stato e i suoi funzionari, mi sembra giusto parlarne. E in secondo luogo perché ho come la sensazione che nessuno ricordi più niente e in questo mare di melassa tutto finisca per essere sepolto negli scantinati della memoria. E invece, visto quanto accaduto a Genova, visto ciò cui abbiamo assistito ieri in un'aula di tribunale, con i Br irriducibili che credono sia giunta l'ora di rifare la rivoluzione, è bene non dimenticare. Per quanto si dica che i tempi sono cambiati e non c'è più l'area di fiancheggiamento del terrorismo, tira una brutta aria. E non vorremmo che si commettessero gli errori di allora. Soprattutto che ci fosse la stessa miopia della classe politica e dei colleghi giornalisti. O forse non era miopia? di Maurizio Belpietro