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Al Pacino, attore decadente: non convince al Lido di Venezia

Andrea Tempestini
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Un'overdose di Al Pacino. E si può uscirne esaltati o frastornati, riversi in un angolo o euforici. È quello che è accaduto a Venezia. Qualcuno ha continuato a pensare che, da Insomnia del 2002, Al Pacino non ha sfoderato nessuna interpretazione davvero grande. Altri hanno dato il via agli applausi. L'attore numero uno al mondo - perché questo è Al Pacino: e quando sei re, non smetti di esserlo - ha scaraventato i suoi occhi enormi, il suo vibrare furioso e febbrile in due film alla Mostra del cinema. Fuori concorso è stato presentato The Humbling di Barry Levinson, tratto dal penultimo romanzo di Philip Roth, pubblicato nel 2009, che racconta di un attore sessantenne che si accorge di perdere piano piano la sua arte, la sua capacità, il suo dono. Al Pacino avrà scelto il personaggio per esorcizzare proprio queste paure? Il film è eccessivo, vorticoso, faticoso da seguire, a tratti commovente, a tratti ridicolo. Inizia con Pacino che si trucca, interminabilmente, in camerino, mentre ripete il monologo «tutto il mondo è un teatro» dalla commedia di Shakespeare Come vi piace. Il camerino è pieno di specchi, e gli Al Pacino si moltiplicano, in un'orgia di parole, come se ci fossero quattro Al Pacino in una scena di dialogo. Inizio folgorante, ti ci perdi subito. E poi si perde Al Pacino: perché uscendo dalla porta secondaria del teatro per fumarsi una sigaretta, si ritrova chiuso fuori e costretto a cercare di rientrare dalla porta principale, fermato dalle guardie, mentre il sipario si sta alzando... È pazzesco, perché è una scena quasi identica a quella di un altro film del festival, Birdman di Alejandro Gonzales Inarritu, quando Michael Keaton si trova seminudo a voler rientrare in teatro. In The Humbling, Pacino recita un uomo fragile, debole, fiaccato dal mal di schiena, ridicolo. Incontra una ragazza di circa trent'anni, Pegeen, interpretata da Greta Gerwig. Il rapporto che nasce tra i due è squilibrato, è difficile da credere, ma le scene tra i due sono le migliori del film. Lei deve essere insicura e sprezzante, oggetto sessuale e angelo della morte, meravigliosa e insopportabile: e riesce a esserlo, con grande padronanza. Eccessivo, delirante, vorticoso, il film di Levinson è tutt'altro che perfetto, ma in qualche momento diviene una formidabile masterclass sul teatro. Nel film, su una barella di ospedale, Al Pacino fa un grugnito di dolore e poi chiede all'infermiera «ci ha creduto?». Poi lo ripete, magari viene meglio... Non è lontano da questi temi il film con Al Pacino presentato in concorso, Manglehorn di David Gordon Green. Ma forse, con qualche spicciolo meno di ambizione, riesce a portare a casa e allo spettatore qualche emozione in più. Manglehorn è un vecchio sgualcito, con una gatta che non mangia più e un negozietto di duplicazione chiavi. Ha una vita chiusa e stantia come l'odore che c'è in casa sua. Vive nel ricordo di un amore perduto, a cui scrive ancora dopo vent'anni. Vive al rallentatore, pieno di astio, gioca alle slot machine per passare il tempo. Sta morendo solo. Per provare in qualche modo a ritrovare un po' di futuro, dovrà imparare a disfarsi del passato. Anche se l'impiegata Holly Hunter, mesta e sfiorita, è meno attraente della perfezione del ricordo. Accontentarsi è importante per sopravvivere. «La depressione? Ce l'hanno i miei due personaggi, io no», dice Al Pacino alla stampa. «La depressione di Manglehorn è chiusura: lui vive nel chiuso della sua vita. Ma piano piano, riesce a d acquisire consapevolezza di sé. E a rinascere». Occhiali da sole, la flemma di chi è tornato Al Pacino, e non quei personaggi confusi: «Mi piaceva, di entrambi i film, l'alternarsi di commedia e tragedia». Sulle ansie dell'attore, dice: «A volte ci penso, a smettere di recitare, ma penso che l'aereo della mia carriera non sia ancora atterrato». di Luca Vinci

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