Mondiali, perché tifare la Germania: i panzer che non mollano (anche senza bomber)
Dimenticatevi quella culona della Merkel, il cappio dell'Europa e il ghigno luciferino di Martin Schulz. Se parliamo di calcio - e il mondiale ne è la massima espressione - è facile passare dall'odio per il Bundestag al tifo per gli uomini di Joachim Loew. Anzi, per chi aveva il poster di Lothar Matthaeus in camera, la Germania fa sempre tornare alla mente le punizioni bomba che facevano esultare come un pazzo un bambino di cinque anni al suo esordio a San Siro. Ma oltre ai brividi d'infanzia, c'è anche una sfilza di motivi razionali per sostenere la Germania nella corsa alla finale di Rio. I tedeschi del 2014 sono una macchina quasi perfetta, un mix inatteso di forza fisica e tecnica. A parte il matusa Klose la nazionale tedesca non ha attaccanti di ruolo: eppure produce azioni da gol in quantità industriale. Nella nazionale tedesca non giocano funamboli alla Messi, ma tutti arano l'erba fino all'ultimo secondo dei supplementari e rendono al massimo delle proprie possibilità: perfino un onesto terzino della Sampdoria, tal Mustafi, grazie al gioco dei panzer diventa una spina nel fianco degli avversari. Cristiano Ronaldo era dipinto come la star che avrebbe cacciato Muller e compagni al primo turno? Il fighetto di Funchal ha dovuto raccogliere quattro palloni nel sacco. A rendere più affascinante l'epopea di Lahm e compagni, c'è anche la capacità di risorgere dopo le sconfitte più brucianti. La Germania ha perso il mondiale in casa all'ultimo minuto della semifinale, la finale dell'Europeo 2008 in finale contro la Spagna, il mondiale in Sudafrica in semifinale ancora contro le Furie Rosse, la semifinale dell'Europeo 2012 a causa dell'unica partita degna di nota a livello internazionale di Mario Balotelli. Dopo ogni caduta, però, i tedeschi si sono rialzati contro ogni previsione sfornando sempre nuovi talenti. E se dovessero arrivare in finale contro il Brasile, dopo tante lacrime, stavolta saranno loro a far piangere un intero popolo. di Massimo Costa