Tutti gli errori di Prandelli
Il destino si accanisce sui deboli e sui timorosi. Prandelli ha avuto tutti gli episodi contro, dall'espulsione ingiusta, alla mancata cacciata di Suarez, all'infortunio di Verratti. Ma la partita su un piano inclinato e contrario l'ha messa lui, dopo aver complicato la qualificazione con la sua strampalata formazione contro la Costa Rica. Se a differenza di Suarez, e di Godin, l'Italia non ha saputo mordere e nelle ultime due gare non ha tirato nello specchio della porta, il signor «Moreno 2 - Il ritorno» c'entra poco. Le dimissioni, speriamo davvero irrevocabili, sono un atto dovuto ma Prandelli riesce a togliere dignità anche a questo gesto. Da piangina si lamenta di essere stato troppo criticato («siamo partiti che quasi ci prendevano a fischi e insulti, non c'è senso patriottico») ma mai una Nazionale così modesta ha avuto una stampa tanto favorevole. Abbiamo accettato Paletta, De Sciglio, Insigne e questo Cassano in campo e Destro e Giuseppe Rossi a casa, che altro voleva di più il ct? Sgradevole anche la polemica sul contratto. Recrimina: «Dal rinnovo - di due anni, poco prima del Mondiale - siamo stati considerati un partito, si è rotto qualcosa, ma io non ho mai rubato, pago le tasse». Parole supeflue per sfumare la verità ammessa a bassa voce, ossia che va a casa perché ha fallito («il mio è stato un progetto tecnico non vincente, sono il legittimo terminale della critica»). Il nostro (grazie a Dio ex) ct ha tutto del non leader. Poteva contare su due risultati utili su tre ma è sceso dal pullman coi nervi della faccia tesi come se dovesse affrontare il plotone d'esecuzione. I giocatori queste cose le sentono, sanno quando l'allenatore ha le idee chiare e quando invece si barcamena; e la consapevolezza della mancanza di una guida annebbia il cervello, paralizza le gambe e fiacca gli animi. Il suo patetico appello al patriottismo il giorno della vigilia, anziché caricare gli azzurri li ha naturalmente depressi. In un Mondiale, attaccarsi all'inno per motivare, insinuando tra le parole che gli avversari hanno più cuore dei propri giocatori, è una mossa disperata e un rimprovero controproducente. Con la Costa Rica ha ammesso lui stesso di non averci capito nulla, facendo tutti i cambi nella prima ora e trasmettendo alla squadra il panico in cui il gol dei centramericani prima del riposo lo aveva precipitato. Ha smontato la coppia Darmian-Candreva che aveva funzionato contro l'Inghilterra, mandando in campo il dannoso Abate, e dopo aver dichiarato per mesi che non ci potevamo schierare a due punte, ne ha messe quattro che hanno finito per dribblarsi tra loro, inserendo per ultimo quello che avrebbe dovuto mettere per primo e viceversa. Ieri è partito con una formazione più logica ma il secondo tempo ha confermato che non era farina del suo sacco. Ha fatto giocare Immobile perché sapeva di non poter tornare a casa senza aver dato una chance al capocannoniere, ha schierato la difesa a tre della Juve e ha rilanciato Verratti, che si è rivelato il migliore in campo. Esattamente quello che gli avevano suggerito i giornali, e forse anche i vecchi Pirlo e Buffon. Ma non ha mai creduto in questa squadra, malgrado nel primo tempo l'Italia abbia fatto il suo, e abbia impedito ai laterali Darmian e De Sciglio di spingere. Così, apena la sorte gliene ha dato possibilità ha rismontato il puzzle. Il nervosismo di Balotelli l'ha autorizzato a tornare alla punta unica, l'espulsione di Marchisio e l'infortunio di Verratti gli hanno permesso di riproporre i disastrosi Cassano e Thiago Motta, a furor di popolo finiti fuori. Ha voluto morire con i suoi uomini ma non per eroismo bensì perché ha una testardaggine seconda solo alla mancanza di coraggio e fantasia, che l'ha ottusamente tenuto attaccato alle tre idee, sbagliate, che ha. Ha puntato tutto su SuperMario difendendolo al di là di ogni logica e numero, quando tutti gli dicevano che il ragazzo è piscolabile e non ha la stoffa per prendere in mano la squadra. Cesare è andato avanti imperterrito, salvo nel momento decisivo fare retromarcia e non fidarsi più di lui, sostituendolo «perché era ammonito e avevo paura venisse espulso». Tecnicamente un errore, perché così ha arretrato la squadra e messo il primo mattone della sconfitta. E dopo non averlo saputo gestire l'ha attaccato duramente («Io l'ho portato e io mi dimetto»), compromettendone l'immagine irrimediabilmente. Una caduta di stile degna del suo protetto: poteva risparmiarsela. L'arbitraggio contrario è quanto di meglio potesse capitare a Cesare («l'espulsione ingiusta ha condizionato la gara»), che può nascondere le sue colpe, perché anche se avesse passato il turno con lo 0-0 che l'allenatore si era prefisso come obiettivo massimo la squadra non sarebbe andata lontano. La responsabilità maggiore di Prandelli è essere un provinciale. Firenze per lui era già una metropoli. Ve lo immaginate Mourinho andare al Quirinale a festeggiare uno 0-4 subito dalla Spagna? La sua dimensione è l'Atalanta di Mondonico, il suo maestro di tattica. Il suo regista però aveva il fiato corto (e ingeneroso il ct lo punzecchia con quel «non avevamo giocatori veloci»), il suo bomber è un'incompiuta e Cassano un portafortuna scaduto. Prandelli l'ha portato perché ha ancora nella testa l'assist di Fantantonio a Balotelli contro la Germania due anni fa. L'unica partita vera della sua Italia, che il mister ha inseguito vanamente per tutto questo Mondiale. Chi l'ha messo lì, e gli aveva rinnovato per due anni lo stipendio prima del Mondiale, si è dimesso con lui. Almeno questa è una vittoria dell'Italia. di PIETRO SENALDI