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Filippo Facci: Robledo, Bruti Liberati e gli schiaffi tra pm nella procura anti Berlusconi
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Cominciamo dalla fine, e diciamo subito che alla Procura di Milano - abituata, più di altre, a lavarsi in casa i panni sporchi - denunciare il proprio capo significa bruciarsi. A un procuratore aggiunto che denuncia il procuratore capo, cioè, la cosa più probabile che possa capitare è che incorra presto o tardi in un «promoveatur ut amoveatur», e cioè che il Csm che lo trasferisca ad altro più prestigioso incarico. Si tratta di capire in che misura il procuratore aggiunto Alfredo Robledo soffrirebbe per questo. Ora però ricominciamo dall'inizio. Il procuratore Robledo ha denunciato il suo capo, Edmondo Bruti Liberati, per via di presunte irregolarità nell'assegnazione dei fascicoli. La denuncia è stata inoltrata al Csm (che non l'ha ancora ricevuta) e alla procura generale e al consiglio giudiziario. Robledo ha scritto di «non più episodici comportamenti» coi quali Bruti Liberati «ha turbato e turba la regolarità e la normale conduzione dell'ufficio». Ne ha dato notizia il Corriere della Sera, ma prima di addentrarci va detto subito che gli interrogativi, in linea generale, sono tutt'altro che nuovi. Del tipo: di che cosa è capo, un procuratore capo? Può deviare l'assegnazione di un'inchiesta per indirizzarla a chi pare a lui? Lo può fare una volta, due volte, tre volte, sempre? Viceversa: sin dove può arrivare l'indipendenza di un procuratore? È tenuto a dialogare col suo capo, ad avvertirlo di ogni cosa? Ha ragione di pretendere che ogni inchiesta gli venga automaticamente recapitata solo per l'argomento che tratta? Eccetera. Diciamo subito anche un'altra cosa: che no, lo scontro alla procura di Milano - nostro parere - non è per niente «una lotta tra bande con al centro lo strapotere di Magistratura democratica», come si è scritto in giro: si tratta fondamentalmente di impicci tra magistrati, guerricciole interne a un potere che non ha più argini - la magistratura - e che diventano il paradosso di una corporazione che di indipendenza rischia di morirci. Vediamo i dettagli. Secondo Robledo, il suo capo Bruti Liberati avrebbe svuotato il pool anticorruzione, nel senso che avrebbe destinato ad altri - cioè a Ilda Boccassini e a Francesco Greco - alcuni fascicoli che Robledo avrebbe accolto più che volentieri: per esempio il Rubygate berlusconiano, il fallimento dell'ospedale San Raffaele e la conseguente accusa di bancarotta a Pierangelo Daccò, poi sfociata anche in un' accusa di corruzione all'ex presidente della Lombardia Roberto Formigoni. Già in passato, quando capo e vicecapo della Procura erano Francesco Saverio Borrelli e Gerardo D'Ambrosio, Robledo era giunto a denunciare un'asserita «violazione dei criteri di organizzazione sulla competenza interna vigenti nell'ufficio» per l'inchiesta riguardante l'asta Sea-Comune di Milano, quella riguardante il manager Vito Gamberale. Per dirla male: quando ci sono inchieste delicate o scottanti, i capi hanno teso a preferire Ilda Boccassini e Francesco Greco, e questo è un fatto. C'è qualche retroscena? Probabilmente no, ma Robledo ha offerto il fianco a qualche suggestione per via di un'intervista rilasciata tempo fa all'Espresso: «Le correnti della magistratura sono diventate soffocanti al di là delle buone intenzioni di tanti giudici onesti e capaci... Oggi purtroppo la struttura preponderante è una macchina da nomine. In una società liquida, in piena crisi di valori, servirebbe una nuova idea di giustizia». Oppure servirebbe dare i fascicoli a lui: in ogni caso c'è chi ha forzatamente letto l'intervista a Robledo come una nota polemica contro Magistratura democratica. Il lungo esposto di Robledo (pubblicato su giustiziami.it) si fa forte di tabellari e risoluzioni del Csm, ma la sostanza resta chiara. II procuratore aggiunto lamenta che vari fascicoli sono stati deviati al primo distretto (reati finanziari) per non darli al secondo distretto (quello di Robledo per i reati contro la pubblica amministrazione). Si parla apertamente di «non consentiti spazi di discrezionalità» giungendo a scomodare un «insanabile contrasto con il dettato costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale» a proposito del fascicolo Sea, rimasto in cassaforte per settimane per poi essere assegnato al solito pool per i reati finanziari coordinato da Francesco Greco. Era e rimane l'unico caso eclatante: quel fascicolo non solo andò al procuratore «sbagliato», ma rimase in sonno per mesi; da capo del pool per i reati societari, Greco dapprima iscrisse il fascicolo a modello 45 (non costituenti notizie di reato) e poi l'affare passò al suo fidato Eugenio Fusco, che si pose il problema della competenza perché si configurava una turbativa d'asta per un'amministrazione pubblica, cioè il comune di Milano. Quando Bruti Liberati annunciò a Robledo che gli avrebbe finalmente consegnato il fascicolo, infine, passarono altri mesi senza nessun atto: il fascicolo planò sulla scrivania di Robledo solo nel marzo 2012, dopo un articolo dell'Espresso. Non che, di lì in poi, l'inchiesta abbia registrato progressi dirompenti. Altre lagnanze di Robledo paiono più forzate. Come detto, c'è il caso Ruby, affidato a una come la Boccassini (capo dell'antimafia) e a uno come Piero Forno (capo del pool reati sessuali) e a uno come Antonio Sangermano (in passaggio all'antimafia) e insomma non a Robledo: ma era fisiologico. Ilda Boccassini ha certamente spintonato per occuparsene - il personaggio è fatto così - ma il destinatario naturale era comunque il procuratore Forno: il quale, essendosene occupato in primo grado, è prassi che se ne occupi anche nei successivi. Ma è una prassi che a Robledo non piace. E denunciarlo al Csm equivale a uno sfregio. di Filippo Facci
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