L'editoriale
di Maurizio Belpietro
Una volta c'era il governo di larghe intese, da ieri invece c'è il governo «salvo intese». Un consiglio dei ministri che fa le leggi, ma si dice pronto a cambiarle su gentile richiesta. Che vara la riforma dell'articolo 18, ma contemporaneamente è disposto ad affondarla. Un esecutivo tecnico che se c'è da decidere, decide temporeggiando. Se c'è da fare, fa ma poi ci ripensa. Ai giornali era tanto piaciuto Mario Monti quando nei giorni scorsi aveva preso per il bavero Susanna Camusso e le aveva detto che era ora di finirla di menare il can per l'aia. La riforma del lavoro s'aveva da fare e si sarebbe fatta. Tempo scaduto, avevano titolato tutti i quotidiani. Sipario su un'epoca, avevano commentato gli esperti. La concertazione è finita, andate in pace, era stato il giudizio degli editorialisti. Il presidente del Consiglio aveva dimostrato un piglio decisionista tale da mandare i sostenitori in solluchero. L'entusiasmo aveva prevalso sui contenuti della legge, la quale non solo non c'era e perciò era stata tramandata per via orale, ma al primo impatto sembrava molto diversa da quella annunciata. Dal provvedimento erga omnes erano esclusi gli statali ma inclusi i dipendenti delle piccole imprese artigiane. Invece di risolvere i licenziamenti rapidamente, con un accordo tra le parti, era richiesto di sottoporsi a una via crucis in tribunale. Per mandare a casa un dipendente inoltre toccava sborsare una montagna di quattrini. E per finire non c'era neppure la certezza che superati gli ostacoli il fannullone fosse allontanato. Lacune però liquidate in articoli a margine, mentre le prime pagine erano conquistate da giudizi favorevoli sul tempismo del premier. Monti era a questo punto pronto a decollare verso le capitali mondiali per propagandare il risultato raggiunto, ma ecco scoppiare il patatrac. Dopo quella piantagrane della capa tosta della Cgil, a lamentarsi per la riforma dell'articolo 18 hanno cominciato i vescovi, quindi l'arcangelo Raffaele della Cisl e a ruota è arrivato il Pd. Subissato dalle proteste degli iscritti, Pier Luigi Bersani che era pronto a dare il suo assenso alle nuove regole del mercato del lavoro si è ricordato di essere il leader del più grande partito della sinistra ed è tornato a sventolare la bandiera rossa, minacciando di dissotterrare l'ascia di guerra. Insomma, al governo dei duri (ma appena appena) sono cominciate a tremar un po' le gambe. Di questo passo invece che arrivare alla fine della legislatura si arriva al capolinea, si devono essere detti i ministri. Neanche l'intervento del capo dello Stato, che poi è anche il super capo del governo e presidente ad interim del Pd, è riuscito a riportare gli animi tranquilli, tanto che nel Partito democratico è iniziata a girare l'idea di votare contro la legge. Perciò il governo dell'avanti tutta ha fatto indietro tutta. Il testo prendere o lasciare, è diventato prendere e cambiare. Nell'approvare la riforma sono spuntate appunto le due paroline: salvo intese. Una formula che si dice sia stata partorita direttamente dagli uffici del Quirinale, i quali non sapevano in che altro modo uscire dall'impasse di un provvedimento di legge non ancora approvato ma già impallinato. Dunque da ieri si può licenziare salvo intese. Si può decidere di non reintegrare un lavoratore ma salvo intese. E anche l'indennizzo è salvo intese. Nella storia della Repubblica ci è capitato di ascoltare formule di ogni tipo, anche le più bizzarre come le famose convergenze parallele. Ma un governo che presentasse una legge e al momento di votarla si dichiarasse disponibile a modificarla, questo no, non ci era ancora accaduto. Ovviamente, essendo uomini di mondo, ne conosciamo le ragioni. Non potendo varare un testo definitivo a causa della contrarietà di una parte della maggioranza che lo sostiene e non potendo però neppure presentarsi a mani vuote di fronte ai partner esteri, l'esecutivo ha escogitato la scappatoia: la legge approvata per essere subito dopo cambiata. Una innovazione adatta ai tecnici, gente di studio che non bada ai compromessi della politica ma va al sodo, cioè all'interesse del Paese. E a proposito di quest'ultimo, ma siamo sicuri che alla fine, dopo tutti i rimaneggiamenti, la norma che ne uscirà servirà davvero a innovare il mercato del lavoro, rendendolo più flessibile e dunque più ampio? Già la riforma ci pareva mal riuscita, con le modifiche che verranno apportate dal Parlamento non osiamo immaginare. Purtroppo non ci resta che sperare nel governo dei duri e nel suo presidente. Supermario bluff. di Maurizio Belpietro