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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Lucia Esposito
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Maurizio Azzollini, l'autonomo che trentacinque anni fa fu fotografato mentre nel centro di Milano sparava ai poliziotti, dice di voler portare i fiori sulla tomba dell'agente che morì negli scontri. Il gesto lo vorrebbe compiere insieme alla moglie della vittima, la ragazza che rimase vedova a 21 anni e mezzo, incinta di una bimba che non avrebbe mai visto suo padre. «Vorrei in questo modo testimoniare il riconoscimento del dolore che ho causato», ha dichiarato in un'intervista concessa ieri al Corriere della Sera. Dal testo si capisce che Azzollini non è nemmeno sfiorato dal sospetto che la moglie di Antonio Custra, questo il nome del vicebrigadiere ucciso, non lo voglia incontrare e non sappia cosa farsene del suo «gesto riparatore». L'ex autonomo divenuto capo di gabinetto del vicesindaco del capoluogo lombardo non sembra comprendere che tutto vorrebbero i famigliari delle vittime del  terrorismo, tranne  incontrare le persone che in qualche modo hanno contribuito alla scomparsa dei loro cari. Anzi. Se c'è qualcosa che li colpisce in senso negativo, riaprendo una ferita mai rimarginata, è questa ossessione degli ex rivoluzionari di essere accolti e perdonati da mogli, figli e parenti. Lo si capisce benissimo dalle parole di Anna Sito, vedova Custra, ragazza salita dal Sud inseguendo l'amore e un lavoro: «Oggi tutti hanno pagato il conto con la Giustizia, compreso l'assassino. Loro si riprendono vita e diritti e io sono sempre qui, con l'amaro in bocca». Certo, Azzollini quando fu ritratto a braccia unite mentre sparava ai poliziotti non aveva ancora 17 anni e, come racconta lui stesso, con il revolver voleva cambiare il mondo. Ma quando al giudice Guido Salvini taceva i nomi dei complici, silenzio che consentì a Giuseppe Memeo di sparare a Luigi Torreggiani e a Marco Barbone di  assassinare Walter Tobagi, di anni ne aveva già 20 e a 28 ancora si rifiutava di identificare gli ex compagni  di banda armata. Ora dice di aver sbagliato e di voler rimediare, restituendo attraverso il suo impegno qualcosa alla società. Ma siamo sicuri che la società voglia un aiuto come il suo? Siamo certi che la sua testimonianza, cioè quella di un giovanotto che sparava alle forze dell'ordine e oggi ricopre un incarico di pubblico rilievo, sia l'esempio migliore per giovani da educare? Azzollini fu arrestato nel 1977, accusato e processato fu condannato a cinque anni, ma già nel 1982 fu impiegato dal Comune di Milano. Con un regolare concorso dice lui: dopo aver cioè scontato la condanna, è stato assunto come «educatore» con l'incarico di occuparsi di adolescenti in difficoltà. Probabilmente chi ha passato dei guai sa meglio rappresentarli a chi rischia di passarli e dunque la scelta di incaricare proprio lui, ex carcerato, a convincere i ragazzi a rigare dritto avrà una sua logica. Sicuramente però la logica stride quando si assiste ad un Azzollini che avanza nella carriera mentre la figlia di Antonio Custra, cioè la ragazza privata del padre a causa di quei rivoluzionari da salotto, è costretta a fare l'operatrice ecologica. «Le sembra giusto», chiede la vedova del vicebrigadiere a distanza di trentacinque anni. «Lui fa il capo di gabinetto, per Antonia fino a un certo punto il solo posto disponibile  era quello di spazzina?». A chi si pone domande simili Azzollini replica sostenendo di essere cambiato e di non poter essere descritto attraverso una fotografia, come se la sua vita si fosse cristallizzata in  un fotogramma di trentacinque anni fa. Dice: «Questa è una strumentalizzazione finalizzata a un modo di fare politica  che mi sento di avvicinare a quello, sbagliato, che ho utilizzato a 16 anni».  Sottinteso, ma neanche tanto, chi mi critica è un terrorista. Sarà, ma le parole non hanno mai ucciso nessuno, il calibro 7.65 sì. Ha pagato il suo debito con la giustizia e la Costituzione chiede alla pena di tendere alla rieducazione del condannato, lo difende il sindaco Giuliano Pisapia, lui stesso accusato e scagionato nel passato per un episodio di terrorismo, per il quale soggiornò quattro mesi e mezzo nel carcere di San Vittore. Giusto. Ma la Costituzione non chiede poi di gratificare il pregiudicato con incarichi di primo piano. Soprattutto non chiede che siano esibiti in ruoli pubblici e promossi a capo di gabinetto del vicesindaco. Una volta scontata la pena e rieducati, i condannati possono tornare alla vita civile, ma è auspicabile che lo facciano cercando di farsi dimenticare.  E invece no. Usciti dal carcere i terroristi salgono in cattedra, scrivono libri, diventano parlamentari e alti funzionari. L'indecenza naturalmente non è colpa loro. Ma di quello Stato che brigatisti e autonomi volevano abbattere e ora generosamente li accoglie e li ripaga coccolandoseli e premiandoli. Dimenticandosi  naturalmente di chi è morto per difenderlo.      di Maurizio Belpietro

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