L'editoriale
di Maurizio Belpietro
Fino a trent'anni fa il sindacato era convinto che il salario fosse una variabile indipendente del ciclo economico. A prescindere dal fatto che una impresa crescesse, per Cgil, Cisl e Uil lo stipendio doveva aumentare per forza. Ci volle del tempo prima che Luciano Lama, leader storico della confederazione più a sinistra, riconoscesse l'errore e ammettesse che la busta paga non poteva essere slegata dall'andamento di un'azienda. Il passo fu compiuto con un'intervista a Repubblica, il quotidiano più vicino alle tesi del segretario, ma prima che l'enunciazione si traducesse in pratica servirono altri anni. In mezzo ci furono scioperi, polemiche e perfino un referendum sulla scala mobile. Il tutto richiese poco meno di una decina d'anni. Vi chiedete perché rievoco un episodio sepolto nel tempo? La ragione è semplice: temo che per far digerire al nostro sindacato la modifica dell'articolo 18 servirà un periodo più lungo di quello che servì allora. Innanzi tutto perché Susanna Camusso non è Lama, nel senso che non ha il coraggio del vecchio leone sindacale né il carisma. E poi perché un'organizzazione che basa tutto il proprio potere sull'immobilismo del mercato del lavoro non è preparata ad affrontare la sfida di un cambiamento così profondo come quello che comporterebbe l'abolizione del divieto di licenziamento individuale. Per il sindacato si tratterebbe di una rivoluzione: invece di situazioni immutabili si troverebbe a fare i conti con realtà in evoluzione. Non più il posto fisso per la vita, ma il posto fisso per una parentesi. Se i lavoratori non fossero legati da una legge alla loro azienda, la conseguenza sarebbe un mercato più dinamico e gli stessi dipendenti avrebbero meno paura di perdere il lavoro, con l'inevitabile venir meno di uno dei motivi che spingono operai e impiegati ad aderire a una confederazione. Ma se, come è evidente, Cgil, Cisl e Uil fanno di tutto per conservare le norme che rendono di fatto il lavoro una variabile indipendente dall'impresa, cosicché nel tempo si continuano a tener in vita posti che sono morti da un pezzo, non esiste solo la resistenza culturale e politica di Camusso e compagni. La stessa rigidità manifestata dal sindacato la si ritrova a sorpresa anche sul fronte opposto, quello industriale: un atteggiamento di cui è più difficile capire le ragioni. Se la Triplice ha paura di perdere potere in fabbrica e comunque, essendo forza di conservazione, tende a reagire negativamente di fronte a qualsiasi novità, tecnologica o normativa, perché gli imprenditori si oppongono? Cosa fa dire a Carlo De Benedetti, uno dei più importanti finanzieri di questo Paese, di non essersi mai imbattuto nell'articolo 18 in 55 anni di lavoro, liquidando il tema come un falso problema? Come mai Giorgio Squinzi, uno dei due candidati in lizza per la poltrona di Emma Marcegaglia, getta acqua sul fuoco, dicendo che le rigidità del mercato del lavoro non sono la causa della riluttanza degli stranieri ad investire in Italia? Il motivo per cui Confindustria e alcuni tra gli imprenditori più in vista sono così poco interessati alla questione è che anche a loro, come Cgil, Cisl e Uil, il sistema va bene com'è: garantisce la pace sociale e soprattutto permette di scaricare gran parte dei costi delle ristrutturazioni aziendali sulle spalle della collettività. Dal servizio di Nino Sunseri che pubblichiamo in questa pagina si capisce che una riforma come quella appena introdotta dal nuovo governo spagnolo, alle imprese costerebbe molto di più. Chi vuole può licenziare, ma il prezzo - della cassa integrazione o della mobilità - non lo paga lo Stato. Sono le imprese a finanziare la spesa. In pratica, se in Italia i meccanismi di tutela del mercato del lavoro sono diventati una zavorra per l'economia, lo si deve anche alla collaborazione, quando non alla complicità, degli stessi rappresentanti del mondo industriale, i quali nel tempo hanno contrattato un sistema di compensazioni fatto di aiuti e sussidi che ora con la riforma temono di perdere. Una rete di protezione che funziona per le grandi e le medie imprese, le quali beneficiano di fondi e strumenti come la cassa integrazione, ma non per le piccole, che al contrario sono costrette ad affrontare da sole le difficoltà di mercato. Per cambiare sarà dunque necessario superare le resistenze culturali e politiche del sindacato, così come avvenne trent'anni fa con i salari, ma probabilmente anche quelle imprenditoriali. I vertici di Confindustria saranno capaci di fare il gran salto, oppure il mercato continueranno a invocarlo solo quando ne individueranno la convenienza? Una cosa è certa, prima delle liberalizzazioni di cui si è occupato il governo c'è da liberalizzare il lavoro. Dai sindacati, di lavoratori e padroni. di Maurizio Belpietro