L'editoriale
di Maurizio Belpietro
Più che il festival della canzone, quello che si è concluso ieri sera all'Ariston è il festival del casino. Intendiamoci, lo spettacolo si è svolto nel solco della tradizione, perché è da un pezzo che il festival è defunto. Ma non essendo mai stato sepolto, ogni anno lo si rianima, togliendolo dall'urna in cui è parcheggiato, e poi ci si inventano polemiche e scandaletti in modo da farlo sembrare in salute. Per l'edizione in corso non si è fatta eccezione, ingaggiando grandi vecchi della canzone italiana, ovvero Gianni Morandi e Adriano Celentano. Entrambi settantenni (Morandi non ancora ma è sul palcoscenico da talmente tanto tempo che è come se lo fosse), avrebbero dovuto presentare il nuovo che avanza nel mondo delle canzonette. In realtà hanno testimoniato solo che della musica italiana non gliene importa niente a nessuno. O per lo meno che nessuno si aspetta novità da Sanremo. Non a caso, sia Morandi che Celentano hanno fatto discutere non per le loro esibizioni canore, ma semplicemente per le gaffe o le provocazioni. L'ugola di Monghidoro perché ha sbagliato i nomi in inglese e si è fatto baciare in diretta tv dal solito idiota. Il Molleggiato per uno dei suoi sermoni: poche idee ma confuse sul paradiso e i giornali cattolici (a proposito: ma l'ex ragazzo della via Gluck anni fa in tv non fece il paladino antiberlusconiano della libertà di stampa? Come mai s'è convertito alla censura?). Che in primo piano ci fossero loro e non i concorrenti, stavolta se ne sono accorti perfino gli stessi cantanti, i quali non si sono attenuti al copione che obbliga a sorridere davanti a una telecamera ma le hanno cantate agli organizzatori. Insieme all'esibizione dei due nonnetti, all'Ariston è però andata in scena anche l'improvvisazione. Strumenti e microfoni che non funzionavano, un sistema di voto in tilt, una valletta sostituita causa panico, le parolacce di Luca e Paolo in fascia protetta e settecentomila euro di spot volatilizzatisi per il prolungarsi del monologo di Joan Lui. Un disastro organizzativo che è lo specchio del Paese, ovvero di una nazione con lustrini e paillettes dove però non c'è mai niente che funziona come dovrebbe. La confusione è stata tale che perfino i responsabili hanno perso la testa, accusandosi l'un l'altro. Il direttore generale che scarica sui suoi sottoposti la colpa delle sparate di Celentano. Questi che si ribellano e ribaltano le accuse sulla capa. Il direttore artistico che minaccia di mollare tutto, anche i lauti guadagni. Pure Morandi prende cappello e partecipa alla rissa dicendo che è felice di aver chiuso baracca e burattini, lasciando intendere di non avere nessuna intenzione di ripetere l'esperienza. In tutto questo casino, uno si aspetterebbe che almeno il saldo finale, cioè dal punto di vista del denaro, fosse in attivo. E invece no. Non solo dal primo giorno, quello in cui si è esibito Celentano, lo share è andato in retromarcia, passando da quasi 16 milioni di spettatori a poco più di 11, meno di quanto fosse stato registrato l'anno scorso. Ma pure il conto soffre. Nonostante gli spot pagati una fortuna, nonostante tutte le reti, anche quelle della concorrenza, abbiano dato forfait sospendendo la programmazione, il festival è in perdita. Uno sbilancio di quattro milioni, dicono i ben informati. La pubblicità, circa 16 milioni lordi, non riuscirebbe a coprire i costi della gigantesca macchina organizzativa messa insieme dalla Rai. Musicanti, tecnici, costumiste, dirigenti, portaborse dei dirigenti: a forza di spendere, lo spettacolo della canzone italiana si è trasformato nel festival del buco. E per ripianarlo si ricorre ai soldi del canone, come se le canzonette e le volgarità di Luca e Paolo fossero un servizio pubblico. Dicevamo che quella andata in scena all'Ariston è la rappresentazione di come funzionano le cose in Italia. Ma prima ancora lo è di come vanno in Rai. Se l'impegno profuso dall'esercito di funzionari e direttori di stanza, anzi in hotel, a Sanremo si traduce oltre che in una brutta figura pure in un bagno di sangue economico, vuol dire che si è perso il senso delle cose e ormai non c'è proprio più nulla da fare. Se la tv pubblica riesce a perdere denaro anche quando potrebbe fare il pieno di ascoltatori, perché non ha concorrenza, non resta che una soluzione: chiuderla.