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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Lucia Esposito
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Premessa: da quando è diventato segretario, Bersani mi sta simpatico. L'idea che ne avevo prima era di un tetro burocrate del Partito comunista, certo non un leader carismatico. Ma una volta al vertice, questa immagine ha lasciato spazio a un tratto più piacevole. Sarà per l'imitazione che ne fa Crozza, sarà perché appena eletto D'Alema e compagni  hanno provato a fargli le scarpe, sta di fatto che non riesco a parlarne male. Eppure qualcosa da dire ci sarebbe, per lo meno su quel che sta succedendo nel partito da quando lui ne ha preso il timone. Come è noto, non si era ancora seduto sulla poltrona che fu di Walter Veltroni e poi di Enrico Franceschini, che già si ritrovò tra le mani  la patata bollente delle elezioni regionali. Grazie a quel meccanismo infernale che sono le primarie - un rito inventato dall'ex sindaco di Roma per autocelebrarsi - Pier Luigi si è ritrovato in trappola. In Puglia il partito voleva candidare a governatore Francesco Boccia, un bellimbusto che D'Alema intendeva imporre al posto di Nichi Vendola. Ma non avendo il rifondarolo alcuna intenzione di farsi da parte, Bersani è stato costretto a correre con il cavallo perdente. Risultato scontato: il pupillo di Bertinotti (allora lo amava) ha asfaltato il Pd, spianando quel che restava del partito dopo le inchieste della magistratura. Qualcosa di simile è successo anche nel Lazio: a forza di litigare su chi mettere al posto di Marrazzo, il Pd si è trovato di fronte al fatto compiuto di Emma Bonino. Una radicale a Roma? Roba da non credere. Soprattutto roba da non digerire per il Vaticano. Così, per cominciare, il neo segretario ha dovuto incassare due sconfitte. Senza contare che anche in Campania è stato costretto a fare buon viso a cattivo gioco, accettando un'altra specie di autoinvestitura come quella del sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca. Probabilmente lo stesso Bersani si dev'essere detto che le Regionali erano incidenti di percorso. Il nuovo Pd esordiva senza toccare palla, ma si era all'inizio e il compagno segretario era ancora in fase di rodaggio. Poi sono venute le Amministrative dello scorso anno, con le primarie di Milano, Napoli e Cagliari. Nel capoluogo lombardo il partito era tutto schierato a favore di Stefano Boeri, archistar, figlio di una famiglia radical chic meneghina. In quello campano invece era tutto spaccato tra bassoliniani e no, e alla fine si decise a sostenere il prefetto  Mario Morcone. A Cagliari in lizza c'era Antonello Cabras, un vecchio socialista riciclato nel Pd. Com'è andata si sa: a Milano le primarie le ha vinte Giuliano Pisapia, il candidato di Vendola, che poi ha battuto anche Letizia Moratti; a Napoli l'ha spuntata Luigi De Magistris, l'uomo di Di Pietro. A Cagliari a sbaragliare il volto  del Pd è stato Massimo Zedda, un altro militante di Sel, il partito del governatore pugliese. Già allora il campanello d'allarme avrebbe dovuto suonare come una campana a morto, ma Bersani minimizzò, consolandosi con la sconfitta degli aspiranti sindaci berlusconiani e con le vittorie di Bologna e Torino, tradizionali roccheforti del partitone rosso. In tal modo, senza preoccuparsi troppo, si è arrivati a Genova, cioè al voto di domenica. A sfidarsi erano due beghine comuniste come Marta Vincenzi e Roberta Pinotti, la prima  sindaco uscente del capoluogo ligure, l'altra senatrice ed ex ministro ombra della Difesa. Risultato? Tra le due litiganti ha vinto il terzo, cioè Marco Doria, il candidato di Sinistra e libertà, un altro seguace del governatore con l'orecchino. E ora il Pd potrebbe perdere anche Palermo.   Di sconfitta in sconfitta, credo dunque che si imponga una riflessione. Certo, Bersani potrebbe liquidare questi avvenimenti come fatti minori, in particolare l'ultimo. Una lite da pollaio tra due prime donne in cui, alla fine, ci ha rimesso il partito. Ma in realtà, i risultati tanto minori non sono. Lasciamo per un attimo perdere le Regioni e concentriamoci sulle città. Nell'ultimo anno la sinistra ha vinto Milano, Napoli e Cagliari e ora probabilmente si accinge a riconquistare Genova. Però per il Pd è come se avesse perso.  Le vittorie non rappresentano soltanto una sconfitta dei quadri dirigenti del partito, ma anche una spina nel fianco di Bersani e dei suoi proconsoli. Basti vedere quanto accaduto  nella città lombarda tra Pisapia e il suo assessore Boeri. E anche a Napoli non è che tra sindaco e partito sia un idillio. Ma perché i militanti di sinistra, quando vanno alle urne per scegliere chi li deve rappresentare alle elezioni, non votano mai un uomo dell'ex Bottegone? Il problema è che ormai tra apparato ed elettore c'è una distanza siderale. Il Pd, pur avendo cambiato nome e riverniciato le insegne, resta il vecchio partito comunista, con i suoi vertici, i suoi burocrati e i suoi metodi. Credono ancora ci sia il centralismo democratico. Pensano che si possa decidere tutto nelle segreterie e non si rendono contro che le decisioni dall'alto non passano più. Non c'è una crisi della politica, sono quei politici che sono in crisi. Uomini e donne in servizio permanente nonostante le bandiere siano cambiate. Nonostante il Pci, il Pds e i Ds siano morti. La verità è che per rappresentare un partito moderno si sono scelti funzionari vecchi. Dismesso il logo, non si sono mai dimessi loro. Per far risalire a bordo gli elettori, non basta che il comandante Bersani non abbandoni la nave e faccia il simpatico: bisogna buttare a mare il gruppo dirigente. Altrimenti il Pd, come gli altri partiti che lo hanno preceduto, si inabisserà. O forse è già affondato. di Maurizio Belpietro [email protected]

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