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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Andrea Tempestini
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Questo mestiere ci ha fatto conoscere un certo numero di facce di bronzo. Nessuna però rasenta l'impudenza di Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, il quale - costretto a giustificarsi per un ammanco di 13 milioni - ha risposto sostenendo di aver avuto bisogno di qualche spicciolo. E, dunque,  ha semplicemente prelevato il denaro dalle casse del partito, proponendosi nel futuro - immaginiamo il più lontano possibile - di restituire il prestito. Cosa intenda il senatore del Pd quando parla di rimborso lo ha spiegato ai magistrati, offrendosi di chiudere la faccenda con un patteggiamento e la restituzione di cinque milioni, otto in meno di quelli sottratti. Da quel che si capisce, la parte mancante dovrebbe essere considerata una sorta di compenso del partito nei confronti dello stesso Lusi, per il brillante lavoro svolto. Dieci anni a maneggiare soldi pubblici in nome dell'interesse superiore e, aggiungiamo noi, anche del proprio, varranno pur qualcosa. Che diamine, un po' di riconoscenza. Fin qui il tesoriere mano lesta, uno che venendo dai Dl - Democratici liberali - è già stato ribattezzato Diversamente ladro. Ma lasciando per un attimo perdere il cassiere con destrezza e le sue divertenti giustificazioni, converrà concentrarci sul partito, le sue strutture, i suoi organi di controllo. Come abbiamo riferito ieri, Lusi ha fatto sparire una montagna di quattrini in un arco di tempo piuttosto ampio, accreditando bonifici da 150 mila euro l'uno sui conti correnti delle sue società, in Italia e in Canada. In principio si era pensato che il denaro fosse servito per finanziare l'acquisto di ville e appartamenti di lusso. Ma poi si è scoperto che queste sono gravate da mutui. Che fine hanno fatto dunque quei soldi? Dove li ha messi lo svuotatore di cassa?  Possibile che un simile salasso non sia stato notato da nessuno? I sindaci, gli altri amministratori  del patrimonio del partito, dov'erano mentre Lusi prelevava a piene mani? Arturo Parisi, ex braccio destro di Prodi, ora dice di aver denunciato delle opacità del bilancio ma che nessuno lo ha ascoltato.  Altri aggiungono di aver richiesto chiarimenti ma di essere sempre stati respinti o ignorati. Tutti distratti e ciechi? Sta di fatto che questa storia è tutta interna al partito dalla cui inseminazione artificiale è nato il Pd. A vendere uno degli appartamenti e dunque a incassare i soldi che Lusi ha soffiato al partito è  Giuseppe L'Abbate, consigliere d'amministrazione di Europa, il quotidiano della Margherita. Ad amministrare la società di Lusi dove il tesoriere infedele fa affluire i fondi  è un certo Paolo Piva, un tizio cui Francesco Rutelli, poi presidente della Margherita, affidò una consulenza quand'era sindaco di Roma e per questo fu condannato - secondo   il Fatto quotidiano - a rifondere il danno provocato all'Erario, in quanto la     Corte dei conti ritenne che l'incarico fosse ingiustificato. Piva, come esperto di taxi, per quel lavoro era in buona compagnia: la consulenza era infatti divisa con lo stesso Lusi. Insomma, si può dire che, nel partito dalla cui unione col Pds è nato il Pd,  come minimo  sono stati poco accorti, mischiando un po' troppo i ruoli privati con quelli pubblici e non distinguendo tra incarichi politici e affari privati. La commistione diciamo che rivela per lo meno una scarsa trasparenza, che poco si confà a un movimento che della correttezza, delle Mani pulite e della diversità morale ha fatto una bandiera. Certo, alla superiorità della sinistra in fatto di soldi ormai non  credono più neppure i bambini, soprattutto perché negli ultimi tempi a picconare la favola ci si sono messi in molti. Prima i magistrati di Monza che hanno accusato l'ex capo della segreteria di Bersani di aver preso soldi da diversi imprenditori; poi  l'arresto di Lino Brentan, ex amministratore dell'Autostrada Venezia Padova, ma soprattutto uomo forte del partito lungo la Riviera del Brenta. Vicende che cascano proprio nei giorni in cui Carlo De Benedetti, ossia il miliardario rosso padrone di Repubblica, rivela che la Procura di Milano salvò il Pci durante Tangentopoli. «Il Pci è stato protetto», ha svelato l'uomo arrestato per le tangenti sulle telescriventi delle Poste, «perché sia Borrelli che D'Ambrosio volevano distruggere un sistema di potere, non tutti i partiti». Tradotto: si voleva far fuori la Dc e il Psi, mica i comunisti. I quali, anzi, avrebbero dovuto beneficiare del repulisti, riuscendo dopo cinquant'anni di tentativi a conquistare finalmente Palazzo Chigi. Peccato che un guastafeste di nome Silvio Berlusconi abbia rovinato tutto.   Ma forse, ora che non c'è più (al governo, s'intende), probabilmente non serve più proteggere i post comunisti. Troppo vecchi, troppo litigiosi, troppo inutili. Meglio puntare su qualcun altro. E loro, i loro soldi e le loro mazzette, vadano pure al diavolo. Cioè in Procura.

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