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L'editoriale

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di Maurizio Belpietro

Lucia Esposito
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Avendo tassato tutto, ma dimenticato di aggravare le imposte sul fumo, ieri la maggioranza che sostiene il governo ha deciso di colmare la lacuna. Per compensare il mancato incremento dei contributi a carico dei lavoratori autonomi, i relatori del decreto Milleproroghe hanno deciso di  fare una bella sorpresa ai fumatori. La cosa in sé non sorprende. Anzi, semmai fino ad oggi ci eravamo stupiti del contrario. E cioè che il governo dei tecnici fosse stato di mano pesante con tutti, automobilisti e professionisti, evitando però di toccare gli acquirenti delle «bionde». Credo che negli ultimi vent'anni, cioè da quando è in voga l'abitudine di fare ogni dodici mesi una manovra correttiva dei conti pubblici, non ci sia stata stangata sul contribuente che non abbia incluso anche una botta contro i fumatori. Tassare la benzina, le case e le sigarette è  la cosa più facile del mondo perché nessuno può evadere il Fisco. Basta decidere che le accise sul tabacco sono più alte e il gioco è fatto. Essendo dunque nel solco della tradizione, l'imposta sul fumo conferma una cosa e cioè che a differenza di quanto si vuol dare a intendere, questo governo non sta facendo nessuna rivoluzione. Non c'è un cambiamento di politiche fiscali né vi è l'unica cosa necessaria in un momento di grave tensione finanziaria. Intendo dire che questo esecutivo non sta attuando i grandi cambiamenti che mi sarei atteso sul fronte della spesa pubblica. Non ci sono tagli agli sprechi né un vero piano per snellire la macchina burocratica. Visto che non c'è intenzione di risparmiare - come sarebbe tenuta a fare una famiglia troppo indebitata - a Monti e compagni non resta che la strada dell'aumento della pressione fiscale, sulla casa come sui consumi, che si tratti di benzina o sigarette. Per fare tutto ciò non serviva un governo di professoroni. Ne bastava uno di allievi ripetenti, che copiasse senza riflettere ciò che avevano fatto i ministri precedenti. Chi studiasse le politiche della finanza pubblica negli ultimi vent'anni scoprirebbe infatti che, nonostante il diverso colore politico, tutti gli esecutivi hanno applicato la stessa ricetta. Niente tagli, ma molte tasse. Il risultato è il debito pubblico più mostruoso d'Europa e la pubblica amministrazione più scroccona del mondo occidentale. Un simile modo di procedere ha però una larga fascia di estimatori. Non toccare la spesa pubblica, mantenere inalterato il numero di dipendenti dello Stato ed evitare di metter mano al sistema di welfare (mercato del lavoro compreso), fa felici tutti quelli che i cambiamenti li vedono come fumo negli occhi. Non a caso il governo gode di un certo consenso. E neppure stupisce che ci sia chi, a sinistra, cominci a guardare Monti come il vero futuro leader progressista. Altro che Bersani, Vendola e Di Pietro: l'avvenire del Pd e dei suoi alleati è nelle mani del professore della Bocconi. Lo ha dimostrato l'altra sera un sondaggio visto a Ballarò. Il settanta per cento degli elettori di sinistra vuole l'ex rettore a Palazzo Chigi e lo preferisce a qualsiasi altro leader, anche a quelli del suo partito. Una identificazione con Monti che a destra non c'è e, se c'è, è presente in misura assai più bassa. La verità è che i progressisti hanno trovato il loro leader. Il solo che è riuscito a sconfiggere Berlusconi e a mandarlo a casa. Senza il professore, il Caimano sarebbe ancora lì. E per questo il popolo di sinistra adora la grigia figura del bocconiano. Il quale ricambia l'affetto con entusiasmo, mettendo in soffitta tutte quelle riforme che potrebbero dispiacere al Pd e alla Cgil, come ad esempio la riscrittura dell'articolo 18 e la modifica della cassa integrazione. Pur di non rompere l'idillio, Monti ha indotto il ministro del Welfare a innestare la retromarcia e rimangiarsi provvedimenti già annunciati. Lo sbilanciamento a sinistra del presidente del Consiglio è tale che viene da porsi una domanda: cosa aspetta il Pdl a mandarlo a casa? Forse di arrivare al 15 per cento? di Maurizio Belpietro [email protected]

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