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luciano capone

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Andrea Tempestini
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Pochi giorni prima del discorso del luglio 2012 che ha salvato l'Europa («la Bce è pronta a fare tutto il necessario per preservare l'euro. E credetemi, sarà sufficiente»), Mario Draghi aveva cercato di garantire sulla tenuta dell'Eurozona dicendo che «l'euro è irreversibile». Un concetto, quello dell'irreversibilità della moneta unica, ribadito un anno dopo in un discorso ad Harvard. Un'idea, quella di una conquista storica definitiva da cui è impossibile tornare indietro, che offre un parallelismo – con i dovuti distinguo – con il  dogma dell'irreversibilità del comunismo affermato brutalmente da Kruscev e Breznev a Budapest nel '56 e a Praga nel '68. In realtà, come ogni altro fatto umano, l'euro è eterno finché dura ed ovviamente l'affermazione di Draghi indica più una speranza o un'intenzione che una certezza. Proprio il fatto che il presidente della Bce abbia dovuto più volte fare un'affermazione del genere, indica che “l'irreversibilità” non è poi così scontata, e se il problema esiste non può essere nascosto né può essere affrontato con risposte semplicistiche e vaghe  come “più Europa” o “fuori dall'Euro”. Per chi è favorevole all'unione monetaria è necessario considerare i costi delle politiche di austerità e dall'altro lato gli euroscettici devono valutare i costi di un'uscita dalla moneta unica. L'economista svedese Anders Aslund, a lungo impegnato nei paesi dell'Est Europa durante la transizione post-comunista, ha analizzato gli effetti di una possibile dissoluzione dell'euro partendo dagli esempi storici più simili. In uno  studio intitolato  Perché una rottura della zona Euro deve essere evitata Aslund ha mostrato gli esempi dell'Impero Austro Ungarico, dell'Unione Sovietica e della Jugoslavia, tre unioni monetarie transnazionali per certi versi assimilabili all'Unione europea collassate nel secolo scorso. E nessuno dei tre precedenti è auspicabile. Tutte le dissoluzioni hanno determinato il blocco dei sistemi di pagamento e del credito, iperinflazione, decine di anni per recuperare la ricchezza perduta e strascichi tragici e violenti. Resta da capire se sia saggio sopportare costi pesanti per mantenere un'unione monetaria ed evitare scenari del genere o se non sia meglio sciogliere prima e pacificamente la moneta unica pagando un costo inferiore a quello che si verificherebbe con un crollo non preventivato.  «Ovviamente niente è irreversibile – dice a Libero Vito Tanzi, per venti anni direttore del Dipartimento di finanza pubblica del Fmi – ma spero che l'euro sopravviva e penso che i paesi attualmente in crisi staranno meglio dentro la moneta unica che fuori. I loro problemi derivano da politiche non sostenibili, che non saranno risolti uscendo dall'euro». Lo scenario apocalittico esposto da Aslund è secondo Tanzi verosimile, ma non è detto che sia il destino di tutte le monete comuni perché «l'Unione Sovietica e la Jugoslavia erano delle unioni forzate, dominate dai russi e dai serbi, mentre ci sono unioni monetarie che funzionano come negli Stati Uniti, in Brasile, India o Australia». E secondo Tanzi non vale l'obiezione secondo cui il sistema statunitense funziona perché la Federal Reserve, a differenza della Bce, stampa moneta e combatte la disoccupazione: «Tutte e due le banche centrali, europea ed americana, hanno fatto un passo più lungo della gamba. La loro funzione dovrebbe essere quella di mantenere stabili i prezzi, invece si stanno in parte comportando come uffici governativi». Le unioni monetarie funzionano non se le banche centrali si sostituiscono o accompagnano le scelte politiche dei governi, ma solo se prevedono e fanno rispettare delle regole precise. E se quindi c'è un difetto nel patto di Maastricht non è tanto la sua “rigidità”, ma al contrario quello di essere stato lasco nel far entrare Paesi che non avevano i requisiti, indulgente nel non aver fatto rispettare i parametri più volte violati anche dai Paesi “virtuosi” e soprattutto sprovvisto di procedure per espellere chi non rispetta le regole. Perché è evidente che se ogni crisi locale esige una soluzione a livello centrale il rischio è che il sistema non regga, che per salvare i singoli Stati crolli l'intero edificio. La conclusione a cui giunge Tanzi nel suo libro sulla crisi (dal titolo Dollar, Euros and Debt e non ancora pubblicato in Italia) è che i problemi che ora affliggono diversi Paesi europei hanno poco a che fare con Maastricht e l'euro e molto di più con un livello di spesa pubblica insostenibile in un mondo in cui i capitali si spostano liberamente e velocemente:  «L'Italia insiste a tassare e spendere il 50% del Pil – ci dice Tanzi – e questa spesa assurda non può essere considerata una politica di austerità. I Paesi mediterranei con una presenza così forte dello Stato e un mercato del lavoro totalmente da riformare non risolverebbero alcun problema uscendo dall'euro. La nostalgia della lira e l'illusione della svalutazione servirebbero solo a comprare un po' di tempo creando inflazione, con il forte rischio di ritornare ai disastri del passato». In realtà l'Unione europea e la sua moneta, più che alle unioni monetarie funzionanti citate dall'economista italiano che hanno una maggiore omogeneità culturale e integrazione politico-economica, somiglia proprio a quelle che si sono disgregate. E proprio da questi precedenti storici c'è da osservare che i Paesi deboli hanno pagato i danni maggiori dai crolli delle unioni monetarie e che sono sempre stati gli Stati più solidi e ricchi ad uscire e sancirne la fine: la Cecoslovacchia dall'Impero Asburgico, la Slovenia dalla Jugoslavia e le Repubbliche baltiche dall'Unione Sovietica. Non esiste una soluzione a costo zero, bisogna valutare se è possibile restare sui binari dell'euro ed evitare lo schianto oppure, qualora fosse inevitabile, se non sia conveniente buttarsi giù dall'euro-treno o quantomeno pianificare un'uscita concordata e meno dolorosa. Su un punto invece, come sottolineato da Tanzi, pare che non ci siano dubbi, l'uscita dall'euro non è la panacea di ogni male, anzi la necessità di credibilità per le nuove monete nazionali che sorgerebbero dopo il crollo dell'euro richiederebbe politiche di austerità forse ancora più dure. In pratica l'Italia potrebbe con la nuova lira comprare un po' di tempo attraverso una svalutazione, ma dovrebbe comunque fare quelle riforme fiscali ed istituzionali che non ha fatto né con la lira né con l'euro, né prima della crisi del '92 né prima di quella del 2008. di Luciano Capone

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